La globalizzazione? È viva e vegeta, parola di Parag Khanna. L’esperto di relazioni internazionali ha appena pubblicato un libro dal titolo “Connectography”, qualcosa come “Connettografia”, che in qualche modo lo rappresenta in pieno. È difficile infatti trovare qualcuno più connesso e più mobile di lui. Nato in India, infanzia e formazione tra Emirati Arabi Uniti, Usa ed Europa, Khanna applica il paradigma della connettività web alla geopolitica e alle relazioni internazionali. Per questo le sue tesi sono contestate soprattutto dai critici delle magnifiche sorti e progressive di internet. Khanna sostiene che, più che caratteristiche come l’estensione territoriale, a fare la fortuna degli Stati e delle città del futuro sarà la loro capacità di avere relazioni diplomatiche, commerciali e sociali con altri Stati e altre città, in un contesto in cui sono essenziali infrastrutture fisiche e digitali capillari ed efficienti. Un messaggio che appare totalmente controcorrente in un’epoca in cui tutti, anche gli esegeti più puri (e puristi) del liberalismo, cantano il revival delle frontiere e il de profundis della globalizzazione.
La globalizzazione ha esaurito la sua spinta? Qualche giorno fa persino il Financial Times sosteneva che “la globalizzazione ha raggiunto un plateau”…
Mi sembrano affermazioni ridicole. In primo luogo, il volume degli scambi mondiali è tuttora in espansione. Magari decelera, ma cresce. Se lei guida una macchina e va più piano, non significa andare in direzione opposta, no? In secondo luogo, la metodologia è superata, perché misura i flussi sui beni durevoli, ma trascura cose come i servizi, i flussi digitali e delle telecomunicazioni. Gli economisti che sostengono che la globalizzazione stia arretrando sono come l’ubriaco che ha perso le chiavi della macchina e le cerca attorno a un lampione. Dopo qualche minuto la persona che lo aiuta gli domanda: “Sicuro che le ha perse qui?” E lui: “No, le ho perse da qualche parte sulla strada, è solo che qui la luce è molto meglio”.
Le sue tesi sulla connettività sembrano implicare un indebolimento dei confini degli Stati. Da una prospettiva europea, le dirò che le frontiere sembrano in piena salute…
Io non dico che le frontiere sono al tramonto, segnalo un paradosso. Quello che sta accadendo è che al moltiplicarsi delle frontiere corrisponde un aumento della connettività attraverso di esse. Più confini ci sono, di più connettività attraverso di essi c’è bisogno. Puoi essere autosufficiente in molte cose, ma non in tutto. I catalani e gli scozzesi vogliono l’indipendenza non per isolarsi dal mondo ma per parteciparvi di più dal punto di vista economico. Vogliono più scambi, più connessioni, più voli diretti nelle loro città. Nel mondo di oggi devoluzione e aggregazione coesistono.
Lei ha affermato spesso che l’Unione europea è un modello da seguire nel mondo. Ne è ancora convinto?
Nel 1990 studiavo in Germania e mai avrei pensato di assistere alle difficoltà che l’Ue sta vivendo oggi. Ma la Grecia starebbe meglio fuori dall’euro? Non credo. Il Regno Unito starà meglio fuori dall’Ue? Non credo. L’Ue è ancora un modello vincente al 90%. Ad essa si ispirano i governi africani che creeranno delle aree free trade entro il 2020. Il resto del mondo guarda all’Ue come un modello e gli europei dovrebbero esserne più consapevoli, accelerando sull’integrazione economica.
All’insegna dell’austerità?
Quello è stato un errore drammatico. Le politiche di austerità sono una minaccia allo sviluppo, soprattutto se si considera l’importanza che ha, e che avrà in futuro, la capacità di finanziare infrastrutture.
Più connettività vuol dire più complessità. Non è che si rischia di non capirci più nulla?
La connettività è fonte di complessità ma anche di resilienza. Mi ricordo che anni fa tutti profetizzavano la prossima guerra tra Cina e Usa innescata da questioni come il petrolio e l’energia. Oggi la Cina ha ripreso a comprare petrolio dagli Stati Uniti. La connettività ti rende più resiliente.