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Chi ha beneficiato di più e di meno della pompa monetaria delle banche centrali

Guido Salerno Aletta, trump

Nel giro di pochi giorni sono stati pubblicati tre rapporti che fanno il punto sull’andamento dell’economia mondiale. Quello dell’Ocse rivede le stime di crescita di quasi tutti i Paesi, titolando:  “Allarme crescita mondiale: commercio debole e distorsioni finanziarie”. Il Trade and Development Report dell’Unctad, l’agenzia dell’Onu  che si occupa di commercio internazionale e di sviluppo,  definisce quello in corso come “Un anno trascorso pericolosamente”. La Banca dei Regolamenti internazionali, nel suo ultimo bollettino trimestrale, esprime una forte perplessità: “Mercati dissonanti”: da una parte, infatti, ci sono i rendimenti obbligazionari a minimi storici e, dall’altra, i prezzi delle azioni sono a livelli nettamente più elevati, gettando un’ombra sulle valutazioni in questi mercati.

Ci sono, in tutti i documenti, spunti di riflessione che vanno al di là dei timori per la bassa crescita e per i default finanziari sempre possibili, in quanto riguardano le dinamiche attuali del capitalismo e della stessa globalizzazione.

Per quanto riguarda il modello di crescita, secondo l’Unctad, ci sono due caratteristiche specifiche che riguardano per un verso le economie sviluppate e per l’altro i Paesi che hanno adottato una strategia export-led, e che influiscono univocamente sulla insufficiente dinamica dei redditi e della domanda interna e sulla tendenza dei prezzi al ribasso. Ormai da un trentennio, infatti, nelle economie sviluppate l’aumento della profittabilità delle imprese non deriva da un aumento degli investimenti fissi lordi (al netto delle costruzioni), che anzi sono caduti dal 20% del pil nel 1980 al 16% del 2015. Di converso, la quota dei profitti ha seguito la traiettoria opposta, salendo dal 14,6% al 18% nel 2013. Il modello di crescita basato sulle esportazioni, a sua volta, ha comportato la devoluzione degli incrementi di produttività non già all’aumento dei salari ma dei profitti, ovvero alla riduzione dei prezzi al fine di estendere e consolidare la competitività sui mercati. Tutto ciò ha contribuito a rallentare la domanda interna ed alla tendenziale deflazione dei prezzi.

L’analisi che nei tre documenti si fa delle misure monetarie ultra accomodanti adottate dalle Banche centrali di Usa, Giappone ed Europa porta ad un giudizio sostanzialmente convergente: hanno avuto una influenza sostanziale sui tassi di interesse piuttosto che sulla dinamica delle economie reali dei Paesi in cui sono state assunte. L’Ocse stima che in molti Paesi oltre il 70% dei titoli di Stato in circolazione abbiano rendimenti negativi, per un totale di 14 mila miliardi di dollari, somma corrispondente al 35% del debito complessivo degli Stati aderenti all’Ocse. Il risparmio per i bilanci pubblici, nel biennio 2016-17 ascenderebbe ad oltre il 2% del pil per l’Italia, che si dimostra essere stato il Paese che più è stato favorito da questa misura, e ad almeno lo 0,5% del pil per la Germania. In questo caso, il vantaggio è stato inferiore per via dei tassi già molto contenuti di partenza. Come conseguenza ulteriore della riduzione generalizzata dei tassi di interesse, l’Ocse segnala la minore profittabilità del settore bancario, cui è seguita  una forte ridimensionamento dei valori di Borsa dei titoli. Questo fenomeno si è registrato dappertutto, negli Usa, in Giappone ed in Europa, ma quest’ultima è stata ulteriormente penalizzata dalle decisioni delle autorità di regolamentazione d vigilanza, relative al bail-in ed alle ricapitalizzazioni conseguenti agli stress test. A cascata, secondo l’Ocse, c’è stato un effetto negativo sul funding gap dei fondi pensione, l’indicatore che misura la differenza tra gli attivi di bilancio dei primi 100 operatori e le obbligazioni pensionistiche previste. Questo indicatore peggiora, in stretta correlazione con il calo del rendimento degli US bond a 10 anni, passando dal +9% del 2000 ad appena il +2% quest’anno. Gli effetti di questo peggioramento, in termini di minori prestazioni e di maggiori contributi richiesti, comportano una riduzione dei redditi ed un aumento del risparmio, convergendo verso la riduzione della domanda interna nei Paesi in cui questi Fondi sono più sviluppati. Un ulteriore effetto negativo da riduzione dei tassi di interesse è rappresentato dall’aumento dei prezzi delle azioni, che non è più strettamente correlato all’andamento dei profitti delle imprese quotate, e di quelli degli immobili. Questo fenomeno è particolarmente vistoso in Germania ed in Giappone, Paesi per i quali la Bri segnala un pericoloso scostamento dell’andamento dei prezzi rispetto ai trend di lungo periodo. La casa torna ad essere un bene rifugio, ma con il rischio di una bolla.

L’Unctad, a sua volta, mette in evidenza un ulteriore aspetto negativo dei Qe: nei Paesi emergenti, il debito delle imprese non finanziarie è passato, fra il 2008 ed il 2016, dal 57% al 104% del pil, beneficiando della liquidità immessa sui mercati dalle Banche centrali dei Paesi sviluppati. Fatto 100 nel 2007 il rapporto tra costo del debito e reddito, i Paesi emergenti oggi sono ad un livello superiore a 140, mentre i Paesi sviluppati sono a circa 80. Le politiche monetarie delle Banche centrali dei Paesi sviluppati hanno ridotto a favore di questi ultimi il peso degli interessi, ma i capitali in cerca di impiego e di rischio hanno indebitato e gravato di pesanti oneri gli emergenti. Dalla comparazione, infatti, emerge che, fra il 2010 ed il 2014, in ben 13 Paesi emergenti il debito denominato in dollari delle imprese non finanziarie sia aumentato del 40%, mentre nelle principali economie sviluppate (Usa, Giappone, Germania e UK) il livello di indebitamento è sceso del 20%. C’è dunque il rischio di un default del debito dei Paesi emergenti, con conseguenze sulla stabilità del sistema finanziario del mondo occidentale molto superiori a quelle scatenate dal fallimento della Lehman Brothers. Notevole preoccupazione, anche secondo la Bri, desta l’andamento del  credito interno in Cina, visto che ha superato il 295% del pil. In questo caso, però, uno shock avrebbe minori ripercussioni all’esterno, essendo erogato a debitori residenti.

I dati della Bri, relativi ai flussi transfrontalieri congiunturali, confermano che il mondo bancario è da tempo consapevole di questi rischi: aumentano gli impieghi bancari verso il settore pubblico delle economie avanzate, mentre prosegue la contrazione di quelli nei Paesi emergenti. Mentre il dato relativo al solo primo trimestre di quest’anno segnala una riduzione di 76 miliardi di dollari, rispetto all’anno precedente si registra un -9%. Ancora più marcato è il deflusso dalla Cina: -63 miliardi di dollari, e -27% anno su anno. In ogni caso, la valutazione dei movimenti di capitale in uscita dalla Cina è assai complessa, in quanto spesso si tratta del rimborso di prestiti in dollari, anticipato per considerazioni legate all’andamento dei cambi. In ogni caso, rispetto al picco superiore registrato nel settembre 2014, il credito transfrontaliero verso la Cina è diminuito di 367 miliardi di dollari, pari al -33%.

C’è un effetto speculare alla riduzione del credito bancario transfrontaliero, rappresentato dall’impennata delle emissioni di titoli di debito da parte delle imprese non finanziarie delle economie emergenti, con una evidente sostituzione dello strumento di finanziamento. E’ un processo analogo alla cartolarizzazione dei mutui sub-prime, effettuata dalle banche americane nell’ambito del modello di business “originate-to-distribute”. Il rischio di default si sposta così dal credito bancario ai detentori dei titoli di debito. Ci potrebbero essere conseguenze anche sull’euro, che secondo la Bri sta divenendo una valuta sempre più rilevante ai fini del finanziamento internazionale: la grande liquidità ed i bassi tassi di interesse invogliano anche gli emittenti statunitensi a preferirla, salvo poi cambiarla in dollari, con conseguenze sul mercato dei cambi. Nelle economie emergenti, la quota di titoli di debito internazionali da parte di emittenti non bancari è passata dall’1% del 2011 al 38% di quest’anno: se l’euro sta conquistando spazio, è anche per la prospettiva che aumentino a breve i tassi di interesse negli Usa e che il dollaro si rivaluti di conseguenza. Per la Bce, questo vorticoso indebitamento in euro da parte delle economie emergenti rappresenta un ulteriore elemento di responsabilità.

La frenata della crescita economica colpisce sostanzialmente tutti i Paesi. La politica monetaria espansiva della Fed, della Bank of Japan, e della Bce ha ridotto l’onere dei debitori ma non ha indotto la ripresa degli investimenti nei rispettivi Paesi. Ha creato invece una nuova bolla di debito, nei Paesi emergenti.

La delegittimazione della globalizzazione nelle economie occidentali è sempre più vistosa, meno del 25% degli intervistati dall’Ocse crede che il commercio internazionale crei lavoro e faccia crescere i salari, e che le acquisizione di imprese dall’estero siano positive.

Aver cercato di porre rimedio alla Grande Crisi Finanziaria con ancora più mercato, ed affidando alle Banche centrali il ruolo di moderno Leviatano, è stato un errore. Solo ora, che il populismo ed il nazionalismo dilagano, che le tradizionali famiglie politiche europee sono state sbriciolate,  e solo dopo la Brexit che ha dimostrato la insuperabilità della ragione dei popoli rispetto a quella dei mercanti, l’Ocse chiede che agli Stati di destinare il risparmio sugli interessi alla crescita ed all’equità. I predicatori dell’individualismo e della competizione come unico metro del merito hanno compreso troppo tardi che la loro narrazione non ha più i seguaci di un tempo.

 


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