Anche l’economia aperta ha i suoi nemici. Parafrasando Popper, un po’ tutti danno ormai la colpa della mancata crescita agli altri. Le recentissime previsioni del Centro Studi Confindustria (CSC) puntano il dito sulle tensioni geopolitiche, dal fallito golpe in Turchia al risultato shock in Germania per la coalizione di maggioranza nelle recenti elezioni nel Meclemburgo. Per l’Italia, la crescita del pil nel 2016 non andrebbe oltre lo 0,7% mentre nel 2017 si arresterebbe allo 0,5%. Siamo in frenata.
LE ULTIME PREVISIONI
Sin da luglio, CSC aveva puntato il dito sullo scenario mondiale, definito come una matassa ingarbugliata: già allora, le previsioni di crescita dell’Italia erano state ridimensionate, portandole a +0,8% per quest’anno ed a +0,6% per il prossimo. La colpa, in quella circostanza, era stata attribuita alla Brexit: la riduzione della domanda delle famiglie britanniche derivante dalla svalutazione della sterlina e la conseguente maggiore competitività delle merci e dei servizi prodotti Oltremanica, unite allo shock subito dai mercati finanziari, costerebbe all’Italia, nel biennio 2016-2017, una riduzione della crescita pari allo 0,6%. Anche le vicende politiche italiane avrebbero un peso rilevante sulla crescita: per CSC, la reiezione del referendum costituzionale comporterebbe in tre anni la perdita di 4 punti di pil e di 17 punti di investimenti, mentre nel 2019 il debito pubblico supererebbe il 144% del pil. Una catastrofe.
IL DOSSIER PIL
C’è un filo rosso che lega tutti gli eventi di questi anni: le numerose crisi, politiche, economiche e finanziarie, hanno creato un gioco di specchi dal quale non si riesce ad uscire: più l’economia è aperta, più numerose sono le interconnessioni, più numerosi sono i contraccolpi negativi, anche per l’Italia. Sullo sfondo c’è una tendenza preoccupante: la crescita mondiale di produzioni e commerci si è ridotta fortemente: prima della crisi, il pil cresceva del 3,2% annuo e lo scambio dei beni del 6,8%; di recente, il primo non va oltre il 2,4% ed il secondo sopra l’1,8%.
I NUMERI DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE
Si nota subito il netto ribaltamento dei rapporti, tra crescita e scambi, come è stato confermato dall’Istat nel comunicato sul commercio internazionale. Se si cresce poco, gli scambi cadono. A luglio 2016 si è registrata una marcata flessione tendenziale dell’export (-7,3%), di ampia intensità sia per l’area extra Ue (-8,8%) sia per l’area Ue (-6,1%), condizionata dalla differenza nei giorni lavorativi (21 a luglio 2016 contro i 23 di luglio 2015). Al netto di questo effetto, si rileva una contenuta flessione tendenziale dell’export (-0,9%), sintesi di un calo nell’area extra Ue (-3,2%) e di un aumento in quella Ue (+1,1%). La contrazione tendenziale dell’export (-7,3%) è molto sostenuta verso Belgio (-26,4%), MERCOSUR (-22,2%), OPEC (-17,5%), Stati Uniti (-12,8%) e ASEAN (-12,1%). La Cina (+4,7%) ed il Giappone (+4,0%) contrastano la flessione delle esportazioni. La flessione dell’import (-8,3%) deriva dalla forte diminuzione degli acquisti da Russia (-31,7%) e Svizzera (-13,7%). Il calo tendenziale delle importazioni italiane è spiegato per quasi due punti percentuali dalla diminuzione degli acquisti di gas naturale da Russia e Paesi Bassi, di petrolio greggio dalla Russia e di prodotti petroliferi raffinati dai paesi OPEC.
La crisi rimbalza così, dal 2008, da un settore all’altro e da un Paese all’altro. Molte condizioni che fino ad allora avevano assicurato la crescita globale, e soprattutto gli squilibri che la rendevano comunque precaria, sono venute meno.
DOSSIER GRECIA
In Europa, dopo la crisi americana, il mercato bancario cross-border si è immediatamente rarefatto, per coprire le perdite subite con il default dei mutui sub-prime impacchettati in titoli senza più valore, e per il timore di nuove inadempienze: il ritiro di fondi dalla Grecia ha innescato una duplice crisi, bancaria e del bilancio pubblico, latente da tempo. L’Italia, che pure si mosse subito a favore di Atene accordando un prestito su base bilaterale, fu colpita dal contagio: gli spread sul nostro debito pubblico cominciarono a salire.
LA CRISI BANCARIA SPAGNOLA
L’Italia subì, ancora di più, le conseguenze della crisi bancaria spagnola. Madrid, che era entrata nell’euro nel 2010 con un rapporto debito/pil del 59%, era scesa al 36% nel 2007. Ma la crescita spumeggiante della sua economia era stata determinata dall’incredibile aumento del debito bancario con l’estero, passato dai 435 miliardi di euro del 2005 ai 1.078 miliardi del 2008. Crollò a 568 miliardi nel primo trimestre del 2012. L’Italia fu coinvolta indirettamente: la necessità di coprirsi dalle esposizioni all’estero, di rimborsare gli aiuti di Stato e le anticipazioni di liquidità erogate dalla Bce, che era nel pieno della exit-strategy voluta dall’allora Governatore Jean-Claude Trichet, indusse le banche estere a ridurre gli impieghi in Italia: furono 607 i miliardi di euro in meno nel periodo che va dal secondo semestre 2008 alla fine del 2011, di cui ben 193 miliardi nel secondo semestre 2011. Le banche francesi ritirarono 199 miliardi, mentre quelle tedesche 136 miliardi. Dopo aver subito il trauma della crisi americana, l’Italia è stata colpita di striscio dalla crisi greca ma in pieno da quella spagnola.
I CONTRIBUTI DELL’ITALIA
Si era sparso il timore di un haircut sui debiti pubblici. Per ironia della Storia, proprio l’Italia che di debito pubblico ne ha fin troppo ha dovuto aumentarlo per contribuire al salvataggio di altri Paesi europei in difficoltà, partecipando all’EFSM e poi all’ESM. I beneficiari degli aiuti sono stati Cipro, Grecia, Irlanda, Lituania, Portogallo, Spagna e Romania. Anche questo è un caso in cui il timore di ripercussioni negativa ha avuto il suo peso: l’Italia ha versato un contributo di quasi 60 miliardi di euro, pari a 3 punti di pil. Se abbiamo evitato guai ben più seri, nel frattempo tutto si è avvitato.
LE PRIMAVERE ARABE
Le vicende politiche che hanno riguardato il Mediterraneo, a cominciare con le primavere arabe, sfociate dapprima nell’estromissione di Ben Alì in Tunisia e di Mubarak in Egitto e culminate con l’intervento militare in Libia e la morte di Gheddafi, hanno interferito sui nostri scambi con l’area. Mentre fino al 2012 era ritenuta un’area vitale per l’espansione dell’export, l’influenza del rischio politico si è fatta rilevante: tutti i Paesi dell’area Mena (Middle est, North Africa) sono collocati nella fascia alta. Mentre il governo algerino, che non ha avuto rivolgimenti, gira ancora i benefici delle royalty del gas alla popolazione varando piani quinquennali nel settore edilizio ed infrastrutture, la Tunisia cerca di attrarre gli investimenti con le zone franche, ma paga sul fronte del turismo il timore di attentati. Sta molto peggio di prima.
CAPITOLO LIBIA
Della Libia, meglio non parlare: il suo Opportunity index per l’export italiano è sceso a quota 20/100, registrando un calo di relazioni anche nel 2015. Le vicende di questi giorni, con un conflitto aperto tra il governo di Tripoli e le forze guidate dal generale Haftar, rendono ancora più precario lo scenario, politico ed economico. Sono ben lontani i tempi in cui il Fondo sovrano libico e la Banca centrale della Libia entravano in forze nel capitale di banche ed imprese italiane per sostenerle di fronte alle difficoltà derivanti dalla crisi americana.
I COSTI DELL’IMMIGRAZIONE
La crisi dei migranti, divenuta sempre più grave a partire dal 2013, ha determinato una serie di costi per l’Italia, che ha invocato già lo scorso anno la clausola di flessibilità per coprire le spese che ne sono derivate, pari a 6,6 miliardi nel biennio 2015 e 2016, pari allo 0,2% del pil. La differenza tra la rotta mediterranea e quella balcanica sta nel fatto che l’Unione europea, per bloccare quest’ultima, ha sottoscritto un accordo con la Turchia, che pesa 3 miliardi sul bilancio comunitario. C’è una bella differenza nella gestione dei due flussi: mentre l’Italia contribuisce pro quota al finanziamento dell’accordo con la Turchia, anche se ne beneficia soprattutto la Germania che altrimenti sarebbe invasa da richiedenti asilo, si accolla integralmente l’onere dei profughi che vengono accolti in Italia. L’operazione Frontex, finanziata dalla Ue, si limita al pattugliamento marittimo: ci aiutano a far sbarcare i migranti sul nostro territorio.
CRIMEA E UCRAINA
Dalla crisi ucraina e dalla secessione della Crimea sono derivati altri problemi, per tutti. Al bando sull’export si è aggiunto il crollo del prezzo del petrolio e la svalutazione del rublo: mentre l’export italiano è diminuito quest’anno del 6,4% (-3,1 miliardi di euro), le importazioni dalla Russia si sono dimezzate, con un -56,9% (-5,1 miliardi). Anche qui, crisi politica, economica e finanziaria si sono avvitate: nel 2013, la Russia era l’ottavo Paese per destinazione dell’export italiano. Il mix di sanzioni e crisi economica in Russia ci ha penalizzato, anche comparativamente, visto che abbiamo perso cinque posizioni, diventando la tredicesima destinazione nel 2015, scavalcati da Polonia, Cina, Turchia, Paesi Bassi e Austria.
Ancora non abbiamo fatto i conti con la crisi del Mercosur, testimoniata dalla caduta del nostro export: mentre di Rio ricordiamo solo le immagini degli atleti sui podi olimpici, della crisi del Venezuela nessuno si occupa, così come la caduta del pil argentino al ritmo del 2% mensile non fa neppure notizia.
CONCLUSIONI
L’economia aperta, il mercato globale e le sue ragioni, condizionano profondamente il benessere ed i livelli di occupazione di ogni Paese. Gli Stati continuano a farsi le guerre in giro per il mondo, più o meno dissimulate. I popoli continuano a voler decidere democraticamente il loro futuro, con elezioni e referendum. Ma questo, per i mercati, è un rischio inaccettabile. E’ una situazione di caos che ormai fa del male a tutti, non solo all’Italia: la crisi ha scoperchiato il vaso di Pandora.