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Che cosa non dice Mario Draghi su crescita, disoccupazione e vincoli alla finanza pubblica

Lira, Draghi, Qe
La Bce non ha preso nuove decisioni di politica monetaria nella riunione mensile del Consiglio direttivo. Alcuni  comitati– ha detto Mario Draghi – stanno studiando le opzioni possibili. Il fatto è che la politica del Quantitative Easing non sta producendo i risultati che erano stati preannunciati.
Lanciata con coraggio da Draghi all’inizio dello scorso anno fra grandi polemiche dei rappresentanti tedeschi nella banca  con l’obiettivo di far ripartire l’economia dell’eurozona e riportare la crescita dei prezzi verso quel 2% l’anno che la Bce considera ottimale, il QE si dimostra inefficace. Naturalmente può essere vero che senza il QE le cose andrebbero ancora peggio. Ma il dato rilevante è che il reddito cresce poco, con rischi soprattutto verso il basso ed i prezzi  rimangono praticamente inchiodati intorno allo zero. E’ molto probabile che in seno alla banca la battaglia fra chi,  come Draghi ritiene che si debba fare di più, e gli oppositori del QE che ritengono che l’esperimento sia fallito e non valga la pena di continuarlo, si stia facendo infuocata.
Forse è bene uscire dal linguaggio ovattato dei banchieri centrali e dire le cose come stanno. A Francoforte  non possono sorprendersi per gli scarsi risultati del QE. La Bce non poteva e non può  non sapere che da solo il Quantitative Easing non è in grado di realizzare gli obiettivi che ci si era proposti. In una situazione di depressione economica come quella in cui è piombata l’Europa a partire dal 2008, c’è una sola politica che può fare ripartire l’economia: un sostegno alla ripresa che venga dal bilancio pubblico, una straordinaria iniezione di domanda attraverso gli investimenti pubblici o una riduzione così forte del prelievo fiscale da convincere i consumatori a spendere di più, o una combinazione di questi due interventi.
Oggi gli imprenditori non investono perché non vedono all’orizzonte una crescita della domanda, mentre i consumatori, temendo che le cose possano peggiorare ulteriormente, cercano di metter da parte le risorse per coprirsi rispetto a un futuro che appare incerto. Se non c’è un’istituzione europea che abbia il potere di spendere a sostegno della ripresa e se gli Stati dell’eurozona sono sorvegliati speciali perché debbono tagliare i deficit e non possono pensare ad altro, come può ripartire la crescita?
Il Quantitative Easing di per sé e da solo non è una politica economica: è un aiuto collaterale indispensabile a una politica economica pubblica intesa a fare ripartire la crescita. In presenza di questa politica pubblica, il Quantitative Easing delle banche centrali è indispensabile per evitare che la domanda aggiuntiva provochi un subitaneo aumento dei tassi di interesse che strangoli la ripresa. Cioè le banche centrali possono porsi contro le politiche pubbliche e farle fallire o possono aiutarne il successo. Ma senza le politiche pubbliche, non c’è ripresa. Il QE è al massimo un condizione necessaria, mai una condizione sufficiente per la ripresa. In America l’economia è ripartita per l’effetto congiunto delle politiche di bilancio del governo federale e della politica monetaria accomodante della FED. L’una e l’altra sono state necessarie e tempestive. In Europa questo non è avvenuto e non avviene.
E’ difficile credere che Mario Draghi, il Presidente della Banca Centrale Europea, non sappia bene tutto questo, almeno quanto noi. Forse non può dirlo, se non nelle forme caute che normalmente adotta quando propone che i paesi che hanno i bilanci in ordine facciano la loro parte. Ma dirlo non basta. Né basta dire a sé stessi di avere fatto la propria parte, se altri non fanno la loro, che è la parte essenziale.
Il problema europeo è molto difficile, istituzionalmente e politicamente. Non c’è un governo centrale, come negli Stati Uniti, che possa fare politiche finanziarie a sostegno della ripresa. Al posto di un governo federale vi è una Commissione politicamente debolissima, divisa da visioni economiche contrastanti e priva di un bilancio attraverso il quale fare un’eventuale politica economica espansiva. Si tenga presente che il bilancio della Commissione è pari all’1% circa del reddito dell’Unione Europea e che essa non ha facoltà di indebitamento.
Non essendovi un bilancio federale, il compito dovrebbe passare agli Stati membri. Ma qui si misura il paradosso dell’Europa: fra i paesi membri, quelli che hanno condizioni di bilancio pubblico solide, come la Germania, non hanno alcuna intenzione di fare politiche di stimolo alla ripresa e in fondo lo si può comprendere poiché godono  già di condizioni di piena occupazione. Perché dovrebbero stimolare la loro economia, se non per aiutare le esportazioni altrui? E dunque non lo fanno. Quanto ai paesi che invece avrebbero bisogno di stimolare la ripresa, come l’Italia, la Francia o la Spagna, dove la disoccupazione è alta e l’economia funziona ben al di sotto del suo potenziale, essi hanno i bilanci in disordine, anche perché la bassa crescita colpisce la situazione finanziaria pubblica. Sono quindi dei sorvegliati speciali cui la Commissione rivolge continui moniti a fare di più in senso restrittivo.
In queste condizioni, come potrebbe funzionare il Quantitative Easing che di fatto diviene non una politica di sostegno dell’economia, bensì un modo per ridurre il rischio di crisi del debito pubblico dei paesi più esposti – un risultato importante, ma non risolutivo?
In fondo, le classi dirigenti europee non hanno voglia di affrontare questo tema. Fa riflettere che, invece di concentrarsi sul tema del rilancio della crescita, si discuta di misure sociali, come l’aumento delle pensioni minime, cioè si discuta non di come uscire dalla depressione, ma di come attenuarne le conseguenze sociali. Il problema è che in Europa in fondo prevale una filosofia conservatrice – per non dire reazionaria – che dimentica i problemi della disoccupazione e pensa che sia una manifestazione di demagogia o di populismo richiamare l’attenzione su questi problemi.
A Francoforte ci si consola dicendo che senza il QE le cose andrebbe ancor peggio di come vanno oggi in Europa. E’ un argomento così debole che prima o poi le voci di quelli che sono stati contrarie a queste politiche fin dal primo giorno finiranno per prevalere. Possiamo aspettare che dalla crisi si esca con un passo in avanti nell’integrazione politica? Ma come può esservi nei popoli europei una disponibilità a un passo in avanti, se l’Europa appare oggi come la causa principale delle difficoltà nelle quali ci dibattiamo?
L’esito del voto tedesco di domenica scorsa spinge la Merkel a essere ancora più ferma contro ogni idea di sviluppo comune. Gli altri paesi, a cominciare dalla Francia e dall’Italia, sono politicamente così deboli da non  potere far nulla. Per questo pesa sull’Europa la cappa di una crisi di cui non si vede la fine e di cui si coglie il segno, pur nella rarefatta atmosfera di Francoforte, anche nelle voci e  nei volti degli esponenti della Banca Centrale Europea.
Giorgio La Malfa
(articolo pubblicato sul quotidiano il Mattino)
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