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Come e perché sta tornando il rischio Italia (e perché Phillips non ha torto)

Stefano Cingolani

Una indebita intromissione, una gaffe, un intervento inopportuno, una violazione dell’etichetta diplomatica? E’ stato scritto di tutto, a parte le scemenze su Pinochet (in Cile non in Venezuela, ormai lo ha imparato persino Luigi Di Maio). Ma in realtà l’ambasciatore americano John Phillips ha detto solo la verità. Lo sa chiunque non abbia gli occhi iniettati di sangue fazioso. Lo sa anche chi voterà no al referendum e se ne rende ben conto Pier Luigi Bersani, uno che non ha passato la vita a pettinare le bambole.

Mr. Phillips ha detto il vero così come lo ha detto Fitch, come lo dice JP Morgan, come lo dicono tutti gli analisti internazionali e come s’appresta a dirlo (magari sottovoce) anche la Bce, per non parlare degli eurocrati di Bruxelles. Il rischio Italia è tornato e sta di nuovo turbando i sonni di chi ancora, tutto sommato, crede in questo Paese.

L’indicatore oggi non è lo spread, anche perché i tassi sono negativi. Ad accendere la luce rossa sono altre due lancette, strettamente legate a quella che si chiama economia reale (come se la moneta non fosse reale!): il tasso di crescita e il debito pubblico. Il primo sarà più basso delle previsioni che erano già state ridimensionate, come ha riconosciuto Pier Carlo Padoan: l’Italia è in semi-stagnazione, vedremo il 20 settembre con l’aggiornamento del Def quanto sarà lontana dalla crescita zero. Il debito pubblico continua a crescere e non solo in rapporto al pil, ma in termini assoluti superando ogni record.

Non è colpa dei fondi locusta o del complesso pluto-giudaico-massonico, ma è la conseguenza del fatto che per tre anni consecutivi le misure di sostegno ai redditi sono state varate in deficit. E’ vero che il disavanzo è rimasto dentro il parametro del tre per cento, tuttavia per fermare la crescita del debito avrebbe dovuto avvicinarsi, sia pur progressivamente, all’equilibrio. Semplice anche questo, come la verità.

La politica monetaria con la riduzione dei tassi d’interesse ha consentito di risparmiare 30 miliardi. Dove sono finiti? Certo non a stimolare lo sviluppo. La recente polemica sulla spesa pubblica al di là del conto dei tagli fatti o da fare, nasconde un dato di fatto molto semplice: nel 2011 la spesa primaria (cioè al netto degli interessi) rispetto al prodotto lordo aveva raggiunto il minimo (per così dire), cioè il 44,5% del pil; poi è salita fino al 46,3%.

L’incapacità a mettere sotto controllo la spesa dimostra che i conti pubblici non sono sotto controllo. Mentre la continua rincorsa delle tasse ha estenuato il corpaccione dell’economia che giace esausto. Bonus, incentivi, regalie che dir si voglia non servono a cambiare le aspettative perché tutti si attendono sempre nuovi aumenti fiscali. L’unica svolta seria sarebbe una riduzione, graduale, ma strutturale, dell’Irpef e della tassazione del lavoro, però il ministro Padoan ha detto che non si può fare ora. E ha ragione. Un taglio alle imposte di questo genere richiede che prima il governo sia in grado di domare la tigre della spesa pubblica, altrimenti il rischio Italia diventa la tempesta Italia.

Tutto questo è noto, persino ovvio, ma cosa c’entra con il referendum costituzionale? Togliamo dal campo polemiche di parte. Una vittoria del sì non è la panacea, così come una vittoria del no non è di per sé una catastrofe. Ma l’economia come la politica si basa sulla psicologia. Quel che conta è il messaggio. Il sì indica che l’Italia si muove verso un futuro di ragionevole chiarezza (meglio che stabilità) politica. Il no dimostra che il paese (il popolo, non solo i suoi rappresentanti) non vuole cambiare, è pronto a lamentarsi, ma poi prevale la difesa del proprio particolare.

I gruppi di interesse proteggono i propri privilegi (dai più grandi ai più piccoli viviamo in una giungla dei privilegi) a scapito dell’interesse generale. Con il no giubilano i nemici di Renzi che vogliono la sua testa, festeggiano le regioni che vogliono spendere senza troppe intromissioni dal centro, stappano spumante i magistrati, i burocrati, molti sindacati e via via di lobby in lobby, di contropotere in contropotere.

Questo sarà il messaggio del no, comunque si voglia giudicare la riforma. E’ questo che intendeva l’ambasciatore Phillips, è questo che pensano tutti, non solo gli americani. Chi dice il contrario mente sapendo di mentire, chi oggi s’indigna (a meno che non sia uno xenofobo o un antiamericano con falce e martello) fa soltanto propaganda.

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