Colpo di Stato è un termine che evoca carri armati in strada e arresti in massa di oppositori. Invece la prima donna eletta in Brasile alla presidenza della Repubblica da grandi maggioranze popolari e per due volte consecutive, Dilma Rousseff, è stata avvolta all’inizio in una ragnatela di controverse interpretazioni giuridico-amministrative sull’azione di governo e martellata quotidianamente dalle critiche di stampa e tv, che tuttavia non hanno mai posto in dubbio la sua onestà personale. Infine destituita da un Congresso ritenuto unanimemente corrotto. Perciò la sua denuncia di golpe non ha trovato ascolto sufficiente. Ma questo cinico paradosso che azzoppa la maggiore democrazia sudamericana, ottava economia mondiale, sottolineato tanto dalla stampa americana quanto da quella europea, un nome deve pur averlo e quello di congiura non sembra del tutto inadeguato.
I congiurati sono più che noti, fanno e disfano la politica di Brasilia da decenni. Dilma li conosce personalmente. Alcuni sono stati fino a ieri suoi stretti alleati, così come prima lo erano del predecessore Lula. Eduardo Cunha, l’ex presidente del Congresso costretto recentemente alle dimissioni dall’accusa di aver ricevuto bustarelle per ben 5 milioni di dollari dalla Petrobras, l’ente petrolifero di stato; e Michel Temer, il vicecapo di stato che le è succeduto al momento in cui lei ha dovuto lasciare la massima magistratura per l’apertura del processo di impeachment, anch’egli coinvolto in inchieste per arricchimento personale, sono i più noti. Decisivo è stato il passaggio all’opposizione del maggior socio di governo, il partito del Movimento Democratico Brasiliano (PMDB), cospicuo residuo della post-dittatura militare, privo di una propria linea politica ed esposto al più disinvolto opportunismo.
Mai risanato dopo vent’anni di dittatura, il sistema politico brasiliano è frantumato in una nebulosa di partiti che per dirla in modo brusco ma chiaro in buona misura partecipa e determina maggioranze scambiando voti con cariche, prebende e bustarelle. Tanto Lula quanto Dilma non hanno potuto o saputo restare fuori da questa logica. Per far passare le loro leggi hanno dovuto soddisfare le richieste del mercenariato parlamentare. Dice il leader socialdemocratico Fernando Henrique Cardoso, l’accademico di sociologia che li ha preceduti al Palacio do Planalto e dunque conosce bene ciò di cui parla: “Corruzione non per se stessi, ma per finanziare la propria egemonia, convinti di essere gli unici capaci di fare il bene del paese. Dilma ha tentato di fare pulizia, ma non c’è riuscita. Ha sostituito varie persone cadendo in altre della stessa risma”. La rete dei ricatti è potente e richiede risorse occulte sempre maggiori.
Senza la crisi prodotta dal crollo dei prezzi internazionali delle materie prime a cominciare dal petrolio, Dilma starebbe ancora al suo posto. Ma il caso Petrobras è esemplare: un’impresa-leader a livello mondiale ha perduto in pochi mesi i due terzi del valore in Borsa e i bilanci fino ad allora non propriamente truccati, nondimeno esposti a rischiose variabili, hanno rivelato buchi neri per centinaia di milioni di dollari. Delusa e spaventata da inflazione e disoccupazione, la classe media si è allontanata dalla Presidente. I potentati dell’informazione di massa hanno registrato la sua caduta d’immagine e lanciato l’affondo finale. Gli alleati di governo hanno alzato il prezzo del loro sostegno considerandolo ormai decisivo. Però non c’erano più risorse per soddisfarli. E’ cominciata così la frana di conti e complicità, alleanze e perfino amicizie personali. Lo stesso partito di Dilma e Lula, il Partido dos Trabalhadores (PT) non ha tradito, ma è rimasto lesionato da profonde fratture interne e significative defezioni.
Non è la fine della politica in Brasile. E neppure la fine di Dilma. Lo stesso Senato che la mette fuori dal Palacio do Planalto ha respinto la richiesta di sospenderle i diritti politici presentata dai suoi nemici più accaniti, scivolati in minoranza. Le incertezze coprono però l’intero orizzonte del gigante sudamericano, dall’economia al sistema politico. Il governo Temer, incognite giudiziarie a parte, difficilmente potrà evitare di chiamare a prossime elezioni generali. La situazione finanziaria e l’occupazione restano allarmanti. La discussione sulle proposte di Dilma per configurare come reato la doppia contabilità con cui vengono amministrati i partiti, permettere alla magistratura penale di perseguire le ricchezze di origine illecita e tipificare il reato di arricchimento personale per i funzionari pubblici è stata rinviata a data da destinarsi. Da Brasilia a San Paolo e Rio molti prevedono che insieme alle riforme agraria e fiscale e alla richiesta di un’auditoria sul debito pubblico, costituiranno il programma della Presidente estromessa nel suo ritorno alla battaglia politica.
(articolo tratto dal blog di Livio Zanotti)