Ciò che si nota è la rassegnazione alla paura delle differenze che è, molto spesso, “non conoscenza”. Non conosciamo eppure esprimiamo punti di vista “im-mediati” sull’altro, opinioni non ri-flesse (cioè non frutto di ri-flessione), non calate nell’ altrui realtà ma solo superficiali e finalizzate a porre “pre-giudizi” che sono pericolosi pettegolezzi elevati a presunte verità. Senza voler generalizzare, il “circo mediatico” è strutturato come arena di pre-giudizi, sistema in cui tutto deve essere immediatamente comprensibile da una “ragione di massa anestetizzata” dalla linearità. Le parole, spesso vuote, diventano armi e servono a dire, qui e ora, che la nostra vita è nell’ “eterno presente” di ciò che vediamo, misuriamo, quantifichiamo, misuriamo. Non c’è mediazione tra l’ora e l’oltre, non c’è ri-cerca e il messaggio è chiaro: fermiamoci a ciò che conosciamo, non modifichiamo il nostro approccio, pena la scoperta della realtà-che-è. In sostanza, non ci relazioniamo con la verità dinamica della realtà.
Poniamo limiti innaturali alla nostra conoscenza, non ri-nascendo nella realtà, e ciò porta all’erosione e alla cancellazione dei limiti naturali della nostra responsabilità verso ogni storia personale e verso la storia comune; non siamo responsabili verso la realtà ma ci comportiamo come se fossimo i padroni della stessa e, in questo, si vede la tragedia dell’assenza di mediazione. È come se l’ “io” che guarda alla realtà fosse un meccanismo perfetto ma senz’anima, come se fossimo un modello inanimato che può classificare ogni cosa secondo le regole di una ragione tecnocratica; per noi sembra “tutto possibile”, dalle piccole cose fino a quella che chiamiamo “civilizzazione” e che, alla prova dei fatti, è la strumentalizzazione a fini di sopraffazione e di dominio della ben necessaria “civiltà”, frutto della nostra ri-conciliazione politica con la realtà e con ogni realtà, nella realtà e in ogni realtà.
Siamo, al contempo, molto informati, in-differenti e irresponsabili. Si tratta di un paradosso ? A prima vista si direbbe di sì e invece non lo è; l’informazione, soprattutto quella indistinta che ci viene rovesciata addosso nel e dal “circo mediatico”, non apre le porte alla conoscenza e non ci permette, di conseguenza, di “attivare” la consapevolezza della complessità di ciò che ci percorre e che ci circonda (mosaico di differenze) e di ri-trovare la responsabilità nei “mondi-della-vita”. Siamo al-di-qua della realtà, im-mediati, superficialmente ma sostanzialmente irreali.
Per essere soggetti storici, agenti di realtà, politici dobbiamo progressivamente abbandonare la “non cultura del pre-giudizio” (mai eliminabile del tutto) per entrare nella “cultura del giudizio storico” che è ri-flessione finalizzata alla comprensione e alla com-prensione in noi dei processi storici vitali, alla mediazione per la relazione. Il “terreno politico” è un laboratorio di con-divisione, è un terreno da arare, infinita ri-cerca di senso.
Solo l’idea e l’esperienza totalitaria possono pensare, come hanno pensato e come pensano, di possedere il “terreno politico”; in quel caso non c’è alcuna mediazione possibile ed esiste soltanto ciò che si vede, l’im-mediatezza della parola che si fa decisione e della decisione che si fa violenza, terrore e morte.
L’im-mediato, il non mediato, l’imminente è totalitario perché dogmatizza l’esperienza umana e la priva del suo mistero, della sua profondità, delle sue contraddizioni, della sua “natura”; è totalitario perché cancella la “creatività” che è attività creativa, innovativa, superamento del “qui e ora”, accoglimento dell’ “oltre”, costruzione del “comune” come spazio condiviso, mosaico di differenze. Il totalitario, a differenza dell’autoritario, è a-politico. Nell’esperienza totalitaria, al contempo, si svuota di senso sia l’esperienza personale che l’esperienza di convivenza.
La mediazione è uno degli elementi fondamentali della “politica complessa” e non può essere lasciata allo spontaneismo ma va coltivata, esercitata continuamente e resa “alimento” della formazione di classi dirigenti in grado di cogliere, di accogliere e di comprendere i “segni dei tempi”, per cercare di governarli.