L’importanza della mediazione è evidente, prima di tutto, nell’ aver “ridotto” il mondo a un “supermarket dell’imminenza”. Dove tutto è imminente, eterno presente, che valore ha ancora il vivere ? La mediazione ri-porta nella nostra storia il nostro essere “persone umane”, facendoci ri-vivere le complessità, le profondità, le contraddizioni di ciò-che-siamo. Esistiamo nel tempo dell’in-differenza, dove tendiamo a uniformare e omologare anzitutto noi stessi, ad addormentarci nelle comodità dell’essere “strumenti retribuiti”, vittime dell’illusione di essere “unici”; saltiamo d’un sol colpo la fatica di comprendere la realtà, e di com-prenderla in noi, e ci ritroviamo vincitori nel “niente progettuale”, lasciandoci de-generare e lasciando de-generare la realtà. L’immediatezza trionfa, e con essa il compromesso (che troppo spesso confondiamo con la mediazione), “scontro” al ribasso fra differenze, guerra che provoca pochi vincitori e moltissimi vinti, come vediamo ogni giorno.
La mediazione presuppone il vivere da persone umane, evoluzione consapevole del semplicistico “essere umani”, è il ri-portare a galla il “mistero storico” delle differenze. Parlo di “mistero storico” perché le differenze sono la caratteristica di ciò-che-siamo come umanità, mosaico in evoluzione che si presenta davanti ai nostri occhi come meravigliosa realtà multi-esperienziale e che, faticosamente, cerca e ri-cerca una composizione dinamica che è impossibile da realizzare in senso assoluto e definitivo ma che è doveroso ri-cercare in ogni istante della nostra vita; tale lavoro di ri-composizione si chiama responsabilità.
Attraverso la mediazione, ri-cercando la ri-composizione del mosaico umano, le differenze si trasformano in potenzialità, si relativizzano e si aprono, si ri-trovano nel terreno comune della storia come “agenti” e “generatrici” di realtà. È così che la mediazione ri-trova la sua “natura politica” perché permette alle differenze di uscire dall’auto-referenzialità e di porsi sul piano della costruzione storica della convivenza umana. La “natura politica” della mediazione mostra altresì la “natura a-politica” del compromesso, ciò che nega alle differenze la loro alterità, di fatto negandole.
Relativizzate, le differenze si aprono alla relazione. È solo nella mediazione che ciò-che-siamo si rende disponibile all’altro, a conoscere la parte di noi che ancora non conosciamo. La conoscenza presuppone una disponibilità, un atteggiamento favorevole a “nascere insieme” (con-naitre), dunque a ri-nascere, a ri-trovare la vita come “spazio comune”, ben più largo e ben più contraddittorio del “supermarket dell’imminenza” a cui la vita stessa è stata da noi “ridotta”. Per relazionarci dobbiamo essere disponibili a uscire dal “fortino di non senso” nel quale ci siamo rifugiati e a guardare oltre le nostre finestre blindate; la paura e l’ansia di sicurezza sono il contrario della relazione che, invece, è “rischio” nella realtà e chiede visioni politiche.
Per rifugiarci, per blindarci, basta aumentare le protezioni, mai sufficienti per una impossibile “sicurezza totale”, e condividere la paura per una vita difficile e ingovernabile; per relazionarci, invece, servono la mediazione (ogni “differente umano” è fondamentale ma non rappresenta la “verità della storia”) e la disponibilità a vivere nella realtà-che-è, con-dividendo la vita nelle sue complessità e cercando di comprendere i “segni dei tempi”, non illudendoci di essere “sicuri” e “certi” nella realtà che vorremmo che fosse.