Il tema è abbastanza chiaro. Con provvedimenti normativi, con accordi sindacali, con prese di posizioni unilaterali più o meno sparse in tutta Europa, si sta dichiarando guerra alla “connessione perenne”, ovvero alla prassi generalizzata tra i lavoratori (in realtà solo alcuni con attività professionali che a ciò si prestano), di essere raggiungibili e, quindi, attivi attraverso telefoni, smartphone, tablet e quant’altro anche al di fuori dell’orario di lavoro previsto dalla legge o dal contratto di lavoro.
Verificando alcuni accordi già in essere presso grandi realtà multinazionali, il testo contenuto nella “Loi Travail” appena recepito in Francia e, da ultimo, il nostro disegno di Legge sul lavoro “agile” mi sono convinto che vi sia un grande fraintendimento sull’argomento e che esso sia gestito in modo non corretto e comunque inappropriato.
Mi spiego.
Se fossimo di fronte ad un problema di “prestazione lavorativa”, di “controllo a distanza” o altro, sarebbe corretto e ragionevole immaginare una normativa sul tema; peccato che se così fosse non vi sarebbe alcun bisogno essendoci già un apparato normativo completo ed esaustivo sia a livello nazionale che europeo. Questo vale per quanto attiene il controllo attraverso gli strumenti di lavoro, come e soprattutto per quel che attiene l’orario di lavoro: ricordo che l’art. 1 del d.lgs 66/2003 definisce l’orario di lavoro come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore e nell’esercizio della sua attività e delle sue funzioni”.
L’essere presenti o meno in azienda non ha alcun valore nella definizione ed i conseguenti obblighi e limiti legali. Partendo da tale presupposto, l’attività normativa o delle parti sociali tesa a vietare e/o limitare la “connessione” sembra ridursi a vietare ciò che è già vietato, ossia la richiesta di una prestazione non prevista dalle regole contrattuali e, come tali, non giuridicamente esigibile.
La questione in realtà è molto diversa e più complicata e non tiene conto del quadro d’insieme. L’insieme è composto da una serie di modificazioni sociali, culturali, tecnologiche, relazionali, organizzative, un insieme che mi viene da definire semplicemente “progresso”; non necessariamente un fatto positivo, ma comunque un fatto. Viviamo ormai da tempo in un sistema dove la vita privata inizia, si confonde, s’interseca e, ahimè a volte finisce, con quella professionale; assistiamo quotidianamente all’impossibilità di governare questo cambiamento attraverso le norme tipiche del diritto del lavoro, tanto è vero che l’attuale dibattito giuslavoristico insiste proprio sui tre pilastri del diritto del lavoro: l’orario, la prestazione, il luogo di lavoro.
Non ci accorgiamo però che ogni scatto in avanti apre dibattiti, temi e problemi nuovi ma, se così fosse, poco male! Il vero problema è che si vuole gestire le novità con metodi antichi e schemi sociali e comportamentali ormai superati. Nello specifico come si fa a non considerare che la “connessione” non è solo un tema di “puro” lavoro? Come si fa a non considerare che la “connessione” è un problema (se così la si vuole considerare e trattare) anche nel corso della prestazione lavorativa? Oggi il lavoratore che utilizza – per lavoro oppure no – una tecnologia informatica dal più semplice telefonino al più complesso apparato, è bombardato di avvisi e notifiche di ogni genere all’interno delle quali deve districarsi e poi deve scindere il personale dal professionale! E questo nel corso dell’intera giornata. Il carico di notifiche è ben oltre l’e-mail, abbiamo app, facebook twitter e mille altre cose (sms, mms..).
Siamo dinnanzi ad una “vita” connessa, non ad un “lavoratore connesso al datore!”. Ancora una volta ci si dimentica che l’utilizzo irregolare e/o sproporzionato non è figlio di un vuoto normativo, bensì come per gran parte dei nostri “finti” problemi, si tratta di (male) educazione, di (mala) cultura, di ignoranza. Ed allora vaghiamo alla ricerca di formule più o meno intelligenti certi di non rinvenirne alcuna degna.
Ancora una volta mi permetto di sottolineare che bisogna ripartire dall’educazione e dalla cultura per giungere all’utilizzo sano di ciò che il progresso ci pone a disposizione. Una legge che vieti (?) l’utilizzo di e-mail o altro, sinceramente mi pare superata nei fatti ancor prima che in diritto.
Forse dobbiamo definitivamente cambiare il punto di vista, ovvero immaginare che sia arrivato il momento di abbandonare gli schemi giuridici che regolano determinate attività avendo a mente la società del momento storico in cui sono stati emanati. Credo sia ormai impossibile “modificare”, “novellare”, occorre rimettere mano in modo strutturato ed organico. Rubo la definizione di Scholz di “digital labor” dove è “il privato vissuto on line” diventa “lavoro non retribuito” (google, apple, facebook etc..).