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Vi racconto le differenze tra Europa e Usa su politiche fiscali e monetarie

In un importante discorso che ha aperto l’annuale seminario economico che si tiene a Jackson Hole nel Wyoming, Janet Yellen, la presidente del Federal Reserve System, che è la Banca Centrale degli Stati Uniti, ha affrontato una vasta serie di temi che vanno dalla situazione attuale dell’economia americana, alle prospettive immediate della politica monetaria, alle lezioni più generali che si ricavano dall’esperienza di questi anni.

Per l’Europa e in particolare per i Paesi dell’eurozona, è o dovrebbe essere un’occasione per riflettere sul differente andamento economico fra i due lati dell’Atlantico e sulle perduranti difficoltà di applicare in Europa politiche che negli Stati Uniti hanno rivelato, in questi anni, tutta la loro efficacia.

Circa la situazione americana, la Yellen ha constatato con soddisfazione che “l’economia continua il processo di espansione trainato da una consistente crescita dei consumi delle famiglie” e che, nonostante una certa debolezza degli investimenti privati e delle esportazioni a causa dell’apprezzamento del dollaro, si registra una crescita che negli ultimi sei mesi è stata superiore all’1% al trimestre. Benché non particolarmente rapida – ha aggiunto – questa crescita è accompagnata da un aumento importante nel numero dei posti di lavoro cresciuti negli ultimi mesi di circa 190.000 unità al mese. La disoccupazione – ha detto – è ormai stabilmente vicina al 5%.

La Yellen rivendica alla politica monetaria espansiva ed innovativa condotta in questi anni il merito, o larga parte del merito, di questi sviluppi positivi, ma aggiunge un riconoscimento importante e cioè che “accanto alla politica monetaria, le politiche fiscali hanno avuto un ruolo importante nel combattere la depressione”. Intende naturalmente dire che le politiche fiscali espansive, cioè i bilanci in deficit decisi dal Governo americano, hanno avuto un forte effetto di stimolo che si è potuto valere della contemporanea espansione dell’offerta di moneta da parte della Federal Reserve.

Circa le prospettive a breve della politica monetaria, la Yellen nonostante i dati molto incoraggianti sulla situazione della disoccupazione esclude che sia ormai deciso un aumento dei tassi di interesse, cioè un cambiamento del tono della politica monetaria; si limita a dire che “si vanno rafforzando gli argomenti a favore di un aumento dei tassi di interesse”, ma aggiunge che “poiché le prospettive economiche sono incerte, nulla è stato deciso circa la politica monetaria”.

Vi è poi una parte molto importante del discorso che riguarda le lezioni della crisi: “La crisi finanziaria globale di questi anni e la grande recessione hanno rappresentato sfide durissime per le banche centrali di tutto il mondo e le hanno spinte a modificare profondamente l’impostazione delle politiche monetarie, la loro esecuzione e la comunicazione al pubblico e ai mercati di queste politiche”. Le banche centrali sono intervenute per abbassare i tassi di interesse, hanno scelto strumenti innovativi per farlo, hanno espanso i loro bilanci in misura vastissima – tutto questo allo scopo di sostenere la ripresa. “Una delle lezioni della crisi – spiega la Yellen – è che gli strumenti di cui disponevamo prima della crisi erano inadeguati ad affrontare l’insieme dei problemi che erano davanti a noi”.

Quanto alle prospettive, è indispensabile che le banche centrali “mantengano in essere molti degli strumenti monetari messi in opera per sostenere la ripresa dalla crisi. E potranno essere necessari ulteriori strumenti da aggiungere all’armamentario”.

Confrontiamo queste affermazioni con lo stato della politica economica in Europa e in particolare nell’eurozona. Mentre gli Stati Uniti hanno iniziato fin dal 2008 a utilizzare politiche fiscali espansive accompagnate e favorite da politiche monetarie espansive, l’eurozona, quando era Presidente della BCE Trichet, ha stretto fino al 2012 i cordoni monetari e solo successivamente ha preso con prudenza ad allargarli. Nel farlo Draghi, il nuovo presidente della BCE succeduto a Trichet, ha dovuto fronteggiare le perduranti obiezioni di molto paesi, fra cui il più importante di essi, la Germania.

Ancora l’altro giorno, mentre la Yellen annunciava la continuazione della politica monetaria espansiva, pur in presenza di una disoccupazione scesa al 5%, dal ministero delle finanze tedesco veniva l’ennesimo attacco alla BCE per il suo cosidetto quantitative easing che incoraggerebbe, secondo questa fonte, il ritardo nel processo di aggiustamento fiscale da parte dei paesi membri. Dunque negli Stati Uniti, politiche fiscali e politiche monetarie si sono vicendevolmente sorrette nello sforzo di far uscire l’America dalla crisi e di riportare l’economia americana sul sentiero di una crescita solida e duratura. Nell’eurozona, la politica monetaria espansiva è contrastata ad ogni piè sospinto e la dottrina della priorità del risanamento dei conti pubblici continua ad essere la dottrina e l’orientamento delle istituzioni europee, della stessa Banca Centrale e dei governi di alcuni dei maggiori paesi. E anche se, di fronte al crescente malcontento delle opjnioni pubbliche, le istituzioni europee non esercitano quel controllo sui conti e non somministrano quelle sanzioni su chi si allontana da questa strada che i tutori severi del rigore vorrebbero, il tono delle politiche fiscali rimane comunque improntato a un carattere restrittivo.

Basterebbero queste semplici considerazioni a far nascere un senso di inadeguatezza per le politiche economiche dell’eurozona dove la disoccupazione si colloca ancora intorno al doppio della cifra americana e non accenna a scendere se non marginalmente e dove ancora si insiste sull’idea che il risanamento dei conti pubblici debba costituire la priorità fondamentale e si teorizza quindi che la politica fiscale non abbia e non debba avere alcun ruolo di sostegno della ripresa.

Come soprprendersi che di là dell’Atlantico si ragioni di un eventuale innalzamento dei tassi mentre qui ancora ci si illude che il problema si risolve con i bilanci in pareggio e la libertà di licenziare per far sì che i salari calino? Continuando così l’Europa mette le basi per una autentica crisi sociale e politica di cui si avvertono ormai non solo le premesse, ma anche i primi devastanti segnali.

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