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Perché in Germania alcuni economisti sbuffano per la Merkeleconomics

Ormai ci si è talmente abituati a considerare la Germania il primo della classe, l’allievo modello, il secchione, da non chiedersi nemmeno più se le cose stanno poi veramente così.

Le prestazioni economiche del paese sono, soprattutto se confrontate con il resto dell’Ue, invidiabili. Il tasso di disoccupazione è sceso al minimo storico del 4,2 per cento. La crescita economica si attesterà nel 2016 all’1,9 per cento (Ist. Federale di Statistica), non straordinaria, e con un previsione di ulteriore rallentamento all’1 per cento per il 2017. I salari lordi sono cresciuti dal 2005 al 2013 del 6-7 per cento, mentre dal 2005 al 2015 la percentuale di impieghi a tempo indeterminato è salito dal 40,1 al 46,5 per cento, come si evince da uno studio dell’Institut der Deutschen Wirtschaft (Iw) di Colonia che porta il titolo “Equità e ridistribuzione in Germania”. I numeri parlano di un progressivo seppur lento riequilibrio tra i salari più alti e quelli più bassi, per quanto la differenza resti tutt’ora alta 3,4 volte mentre in Italia, Svezia e Norvegia è di 2,5 volte.

La disoccupazione diminuisce, sono però tutt’ora 5,9 milioni le persone che ricevono un assegno di sussistenza, anche se molte di queste lavorano, solo che il salario percepito è troppo basso per mantenersi. Colpa della globalizzazione si sente spesso dire. “Ma la globalizzazione non c’entra” ribatte in un articolo sulla Welt, Marcel Fratzscher, presidente dell’istituto di ricerca economica Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung (Diw) di Berlino. Anche se poi i politici non si stancano mai di usare la globalizzazione come capro espiatorio di tutti i mali.

L’ha fatto recentemente anche la neo prima ministra britannica Theresa May al G-20 in Cina, dove ha spiegato che: “Molti dei nostri concittadini sono frustrati perché si sentono sopraffatti dalla velocità della globalizzazione e temono di non riuscire a coglierne i frutti”. Un’affermazione che secondo Fratzscher è anche fuori tempo massimo, soprattutto se si parla degli squilibri sociali che ha prodotto. “Stando all’indice di globalizzazione, l’apice si è raggiunto nel 2007 con un punteggio di 10,4, poi è iniziata la discesa, che l’anno scorso si è attestata a 3 punti”. E ciò significa che la globalizzazione ha perso la sua forza propulsiva per lo sviluppo economico e al tempo stesso anche quella di creare disparità.

E’ vero, dice l’economista, la globalizzazione ha creato disparità, molta responsabilità di ciò ricade però sui politici. Fratzscher ricorda che la Germania fa parte dei paesi che hanno maggiormente profittato della globalizzazione. Ed è così che il paese ha potuto sviluppare al massimo il proprio potenziale di innovazione e trasformarsi in campione dell’export, tanto da superare quest’anno anche la Cina. Un primato che come lamenta Peter Praet della Bce, la Germania non ha però saputo convertire in crescita del mercato interno. Tant’è che con il 9 per cento di surplus nella bilancia dell’export, la Commissione Ue ha ripetutamente ammonito il governo di Berlino a investire di più nel paese, per esempio ammodernando le infrastrutture, riformando e aprendo il settore dei servizi.

Ma per entrare più nel concreto delle disparità torna utile il rapporto questo mercoledì dalla Hans-Böckler-Stiftung. Lì si legge che la percentuale di popolazione a rischio povertà in Germania è salita nel 2015 al 15,7 per cento (+0,3 rispetto al 2014). Un aumento che riguarda in primo luogo la popolazione con background migratorio (mentre la percentuale tra i tedeschi autoctoni – 12,6 per cento – è rimasta invariata). Ancora più preoccupante risulta il numero di bambini che dipendono dall’assegno sociale: in tutto sono attorno ai due milioni. Per un paese come la Germania, tra i più ricchi al mondo, si tratta di un vero e proprio smacco, che risulta ancora più gravoso se si tiene conto che sono proprio i bambini a pagare il prezzo più alto di una società, come quella tedesca, che nell’istruzione resta profondamente classista.

E a proposito di istruzione. Anche in questo caso, la Germania ha tratto grandi benefici economici dalla globalizzazione, senza metterli sempre a frutto. Questo è quanto fotografa il rapporto dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo (Ocse) appena presentato. La Germania ha investito troppo poco nell’istruzione; la provenienza sociale è tutt’ora una forte discriminante sia nel percorso scolastico che in quello professionale.

Anche la politica dei salari è stata inadeguata alle necessità. “E così – scrive Fratzscher – metà dei lavoratori con salari bassi ha visto ridursi negli ultimi anni ulteriormente il valore reale degli stessi. A ciò si somma la crescente precarietà degli impieghi”. Soprattutto nei campi in cui ci sarebbe maggiormente bisogno di investimenti invece, quello dell’assistenza sanitaria, della gastronomia, delle pulizie. Impieghi che non possono “migrare” in Cina o India, dove costerebbero di meno, e dunque non devono misurarsi con la concorrenza, la globalizzazione. “Mentre proprio i settori esposti alla globalizzazione, per esempio quelli ad alto contenuto tecnologico, non solo devono investire per restare sul mercato, ma grazie all’aumentata produttività e le conseguenti migliori performance economiche, possono garantire anche remunerazioni più alte”. Remunerazioni che permettono standard di vita più alti, maggiori consumi e via dicendo. Insomma, mettono in atto un circolo virtuoso. La ragione della crescente discrepanza è dunque non l’eccesso di globalizzazione, ma piuttosto la mancanza di una sana competitività globale, come fa notare da tempo anche il Fmi. Fino a ora però, senza molti risultati.

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