“Anche il Pd ha la polmonite“, titola oggi Il Foglio. Come dare torto all’editoriale di Claudio Cerasa? Siamo ormai alla vigilia di una scissione del Partito democratico, che probabilmente si celebrerà dopo il referendum. Del resto, ormai Matteo Renzi è considerato dai suoi oppositori interni non solo la causa del declino della sinistra italiana, ma un vero e proprio pericolo per la democrazia (non si sono ascoltate in queste ore voci della minoranza trasudanti indignazione per il farsesco e sgangherato – più che ignobile – accostamento del premier a Pinochet compiuto da Luigi Di Maio). Insomma, non resta che andare dal giudice e sancire il divorzio per adulterio (tradimento della Costituzione). Comunque, chi vivrà vedrà.
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Perché nel passaggio di secolo, in forma prima silenziosa, poi via via più rumorosa e eclatante, la sfiducia nei partiti è esplosa così clamorosamente? Almeno in Italia, la risposta che forse ha ricevuto più credito è anche la più semplice: la “casta” è diventata insopportabile perché i leader sono peggiorati. Come si suol dire, “non ci sono più i capi di una volta”. Le élite non sono più, come scriveva Vilfredo Pareto (“Trattato di sociologia generale”, 1916), “classi elette” composte da coloro che eccellono nei vari campi, compreso quello dell’arte di governare. Nell’analisi di Roberto Michels era scontato che i capi fossero migliori della massa. Soprattutto “nei partiti del proletariato – scriveva – in fatto di cultura, i duci sono di gran lunga superiori all’esercito“. Come si legge nella “Sociologia del partito politico” (1911), “la gratitudine delle masse verso personalità che in nome loro parlano e scrivono, che si sono create la fama di difensori e consiglieri del popolo, […] è naturale e spesso trascende in vera e propria tendenza delle masse alla venerazione dei capi“.
Nulla di tutto ciò sembra oggi possibile. Come ha spiegato Marco Revelli in un aureo volumetto (“Finale di partito”, Einaudi, 2013), le leadership di partito attuali sono ampiamente screditate, tanto che l’unica rivendicazione unanime che si leva “dal basso” ogni qualvolta si parla di riforma elettorale, è quella di sottrarre alle segreterie di partito il potere di decidere le candidature. La folla di funzionari e di quadri intermedi che occupa gli apparati, così come la moltitudine dei parlamentari, sono spesso considerate come esempio di impreparazione, di cattiva conoscenza dei problemi, di inefficienza e parassitismo. Sono inoltre bollate come venali e affaristiche, marcate dal vizio del privilegio e da uno spirito corporativo, oltre che da un diffuso servilismo. “Non c’è persona più fedele del buono a nulla, perché non ha alternative“, disse in una lezione alla Leopolda fiorentina l’economista Luigi Zingales parlando della “peggiocrazia” dilagante nei partiti italiani.
È “una spiegazione, questa, che tuttavia spiega poco” (Revelli). Perché occorrerebbe capire per quale ragione oggi i meccanismi della democrazia rappresentativa, anziché i migliori, selezionino i peggiori. Su questo nodo esiste una letteratura sterminata, che attribuisce alle trasformazioni “di sistema” – consumatesi nei decenni terminali del Novecento – le ragioni del degrado della rappresentanza politica nei regimi democratici. In un suo fondamentale saggio, “Il declino dell’uomo pubblico” (1974), Richard Sennet poneva all’origine della progressiva “erosione della vita pubblica“, a cui assistiamo da tempo, una vera e propria “apocalisse culturale“.
Un’apocalisse culturale segnata dall’emergere di un Io ipertrofico e insieme vuoto, che tende a proiettare sullo spazio pubblico la propria soggettività narcisistica -sentimenti, emozioni, pulsioni, desideri di successo e di visibilità. Invadendo così lo stesso spazio pubblico con i linguaggi e gli stili narrativi di una soap opera, in un continuo, banale e seriale disvelamento di sé ormai scevro da ogni mistero o pudore. È quanto un altro acuto indagatore della “cultura del narcisismo“, Christopher Lasch, ha sintetizzato con l’espressione “ribellione delle élite” (1995), attribuendo alle minoranze dominanti gli stessi vizi e le stesse debolezze che quasi un sessantennio prima un altro interprete della crisi della modernità, Ortega y Gasset, aveva attribuito a quelli che dovrebbero costituire i loro rappresentati con il suo “La rebelión de las masas” (1930).