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Io, ex Forza Italia, voterò sì al referendum. Parla Urbani

Politologo di fama, padre fondatore di Forza Italia, già ministro nei governi di Silvio Berlusconi, alla Funzione pubblica in quello del 1994 e alla Cultura in quello del 2001, e poi parlamentare di lungo corso, Giuliano Urbani è sceso in campo per il Sì alle riforme costituzionali.

Lo ha fatto assieme a un altro dei professori che tennero a battesimo quella che doveva essere la Rivoluzione liberale italiana: Marcello Pera. E questa scelta di campo ha destato un certo sconcerto nel partito del Cavaliere, lanciatissimo invece per il No.

Professore prima di arrivare al referendum, le chiedo cosa pensi di questo tentativo di Stefano Parisi, di assumere la guida di FI e del centrodestra.

Un tentativo del quale dobbiamo ringraziarlo. Lo conosco benissimo, nutro per lui simpatia e affetto. Me lo ricordo “ragazzo” con Gianni De Michelis al ministero del Lavoro.

Lei ha conosciuto bene anche Berlusconi, pensa che si sia deciso finalmente a fare il padre nobile del suo partito e del centrodestra?

Più ci si avvicina al momento in cui può solo fare il padre nobile e più è evidente che gli manca la consonanza con un mondo, quello attuale, che gli è culturalmente estraneo. D’altronde..

D’altronde?

Viviamo tempi difficili, siamo costretti tutti a federare, a collaborare, a diminuire i motivi di conflitto. E ce ne sono a iosa. Sfide sempre più ardue, di fronte alle quali non resta che cercare di unire, di aggregare, di mettere assieme masse critiche per tentare di rispondere. E se ci isoliamo nel nostro particulare, rischiamo di essere irrisi.

Dunque…

Dunque quella di Berlusconi è una strada obbligata, non può che agire così. Ed è una strada difficile per lui, che è la persona meno adatta, perché è l’uomo che, con coraggio, ha messo assieme una forte minoranza nel paese, pagando il pedaggio di fare alleanze con tanti dissimili: Alleanza nazionale, la Lega, Pierferdinando Casini e dintorni.

Ha fatto fatica.

Si è trovato spesso a malpartito, essendoci, fra lui e loro, anni luce di distanza. Ora però Berlusconi ha fatto il suo tempo, diciamolo. L’uomo andava bene per la discesa in campo, coraggiosa, di 20 anni fa.

Pare il secolo scorso.

Esatto, perché viviamo un’accelerazione storica.

Dunque Berlusconi lancia la leadership di Parisi, fatto che da queste colonne Renato Brunetta ha contestato, dicendo che si tratta solo di una due diligence, ma a prescindere da questo, lei crede che il manager ce la potrà fare?

Non lo so. So però che è un uomo intelligente, equilibrato ma anche realista. Non ci vedo l’erede di Berlusconi, anzi l’accostamento farebbe solo ridere. Anzi, speriamo, in virtù del realismo di cui dicevo, che Parisi non usi certe espressioni care al Cavaliere, tipo rassemblement.

Effettivamente non parrebbe.

Ecco, speriamo che continui e che non la debba usare perché sollecitato. Nel 1993-94, quando nacque Forza Italia, poteva aver un senso, oggi, se c’è un paese in crisi e pure profonda, quello è proprio la Francia. E un’altra espressione che sarebbe meglio non usasse è “i moderati”. Speriamo che se ne sia vaccinato.

Ma come, professore e il leitmotiv di molti colonnelli forzisti e di quelli che lasciano Denis Verdini per rifarsi azzurri?

Ma non significa niente! Va bene quando ci sono estreme forti o tentativi e tendenza a essere estremisti.

Oggi non è così?

Oggi il nostro problema è una classe dirigente che non c’è quando dobbiamo far fronte a problemi come: la crisi europea, l’immigrazione, il terrorismo, un Mediterraneo senza arte né parte. E che ci fa lei con la moderazione, mi scusi?

Non so, provare a ripensare il liberalismo?

Rispetto al passato, il liberalismo va reinventato ma con cautela: non è più quello delle élites del secolo scorso, che aveva una concezione del mondo appunto elitaria. Ci vorrebbe un Benjamin Costant, che si era reinventato la democrazia moderna rispetto a quella degli antichi.

Insomma, il liberalismo a misura della società delle élites non ha più senso?

No, perché le élites stesse vivono una crisi mostruosa, la classe dirigente è sparita, come dicevamo prima.

Abbiamo detto quali parole non dovrebbe usare Parisi. Diciamo quelle che, al contrario, sarebbe bene che utilizzasse?

Dovrebbe parlare di “interessi collettivi”, di “sfide collettive”, ragionare in termini di collettività e individuo, reinterpretando le difficoltà che viviamo, in un’ottica del tutto nuova. Abbiamo a che fare con le masse. Giovanni Malagodi scrisse Massa non massa, dicendo che bisogna ragionare in termini sofisticati ma per governare le masse, essendone parte. Si tratta cioè di unire, far coesistere, cose che in passato sono state divise.

Facciamo degli esempi, professore?

Pensi all’immigrazione, alla società multietnica, problemi che si globalizzano. Con un approccio comunitario ma di alcuni eletti, non si va da nessuna parte.

Questa sua analisi del presente, mi fa capire perché lei decida di stare per il Sì alle riforme.

Sì, ma prima mi consenta di dirle come Forza Italia debba essere archiviata. È stata una cosa utile, una cosa bella, che abbiamo fatto io e Berlusconi, ma perché c’era la “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto, segretario Pds. Ora, l’unica guerra in giro è quella praticata dagli ex-Ds nel Pd. Insomma, Forza Italia non ha più senso, rendiamole omaggio. Una vicenda che prima viene chiusa, dico a livello notarile, e meglio è.

A cosa è servita?

Cose buone ci sono state. Abbiamo liberalizzato la Lega Nord, An, i resti della Dc, un po’ di partito comunista. E allora continuiamo col partito erede di FI. Scordiamoci il 51 per cento ma diamo, con la stessa cultura politica, un contributo di aggregazione che serve oggi.

Forse che si oppone strenuamente, a un’altra idea forzista, pensa a un grande fronte col populismo, un lepenismo à l’italienne…

Eh già, ma, appunto, il lepenismo, che giudico fuori dal mondo, non sarebbe adatto ai moderati.

Urbani, ma perché un fondatore di Forza Italia si schiera per il Sì alle riforme di Matteo Renzi?

Per una ragione semplice: abbiamo bisogno, come Italia e italiani, di un esecutivo il più forte possibile per affrontare le sfide che le dicevo prima. Anzi, siccome sono un po’ pessimista, dico che abbiamo bisogno di un governo il meno debole possibile. Per governare il paese, certo, ma soprattutto per negoziare per l’Europa, trovarci alleati sui dossier importanti, reinventarci un sistema politico. Ma pensi all’Unione, mi scusi.

In che senso, professore?

L’idea d’Europa che avevamo noi, semplicemente non c’è più. Oggi l’Europa divide anziché unire.

Che idea s’è fatto del fronte del No?

Senta, questa riforma non mi piace, è raffazzonata, velleitaria ma almeno quella, oggi, ce l’abbiamo. Le pare possibile che di là, fra quelli del No, divisi su tutto, incapaci di trovare un accordo persino per imbucare una lettera, siano capaci, chessò, di fare una Bicamerale? E con quali esiti? Non solo, poi questi dovrebbero essere interlocutori internazionali, in Europa e con l’Europa? Il No lascia tutto sgretolato. Con le riforme, invece, ci proviamo. Almeno ci proviamo.

Si aspettava tutta questa mobilitazione contro le riforme?

Questo Paese è lacerato, in difficoltà. Non mi stupisce quel fronte, diviso su tutto ma unito contro Renzi. Che è un altro modo di personalizzare, tanto per stare alla nota polemica sul premier.

Lui pare stia spersonalizzando la sfida referendaria. Le risulta?

Non lo so, onestamente. Mi pare disorientato anche lui. Non gli vedo in mano una bussola nitida che consulti spesso. È talmente debole che deve fare i conti con tutti.

(Pubblicato su Italia Oggi, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)


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