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La chance dell’Italia sui brevetti Ue dopo Brexit

Da quasi un anno l’Italia ha aderito al brevetto europeo, una procedura che consente alle imprese di tutelare le proprie innovazioni in tutti i paesi dell’Unione a un costo limitato. In realtà, una procedura unificata di brevettazione era in vigore da quarant’anni ma era solo un meccanismo che gestiva in contemporanea brevetti diversi validi paesi diversi. Come conseguenza naturale del brevetto unico, si è istituita una Corte centrale europea che ha il compito di giudicare in modo unitario le cause in questa materia. Una Corte voluta non dall’Unione europea (era fuori dalle sue competenze) ma da Gran Bretagna, Germania e Francia e istituita in conseguenza di un accordo internazionale. Guarda caso, la Corte ha tre sedi, Londra, Monaco e Parigi.

Un problema per le Pmi italiane. I nostri imprenditori potranno infatti essere condannati, gli si potranno sequestrare i conti correnti, o i beni aziendali, gli si potrà vietare di produrre e vendere i propri prodotti, con un atto scritto in inglese, francese o tedesco. E per difendersi, ma anche per avviare un contenzioso, bisognerà spostarsi a Monaco, Londra o Parigi.

I rappresentanti politici del Bel paese, dopo una timida opposizione al trilinguismo, si sono fatti passare sopra la testa l’istituzione di questo tribunale senza preoccuparsi di quali conseguenze avrebbe avuto per il nostro sistema produttivo composto prevalentemente da piccole e medie imprese. Eppure l’Italia è il secondo paese manufatturiero d’Europa.

Ora però c’è la possibilità di metterci una pezza, grazie alla Brexit. Ovvio infatti che l’uscita di Londra dall’Unione europea renda non più sostenibile la sede londinese del tribunale unico. L’Italia dovrebbe quindi impegnarsi per portarla a Milano. In questa città non mancano certo le competenze giuridiche in materia di diritto societario né le capacità organizzative. La richiesta è già stata fatta da alcuni (pochi) esponenti politici di partiti diversi, ma non ha prodotto alcun effetto, almeno per ora. Chissà se il governo saprà trovare il tempo e la volontà di fare propria questa istanza (che nemmeno Confindustria, evidentemente poco interessata alle Pmi, ha finora sostenuto) nel nome e nell’interesse delle piccole e medie imprese italiane.

Pubblicato su Italia Oggi/ MF/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi


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