E’ lui, o non è lui? Si rimane attoniti, a leggere l’incipit del Discorso sullo stato dell’Unione pronunciato due giorni fa dal Presidente della Commissione Jean-Claude Juncker: “La nostra Unione Europea, almeno in parte, è in crisi esistenziale”. Racconta dei discorsi uditi nei mesi scorsi da parte dei menbri del Parlamento, che parlano solo dei problemi dei loro Paesi, riferendosi all’Europa solo di sfuggita. La paura che li anima, sottolinea, è di non essere rieletti: mai c’è stata tanta frammentazione e così poco in comune.
Ci sono molti problemi irrisolti: gli stessi, aggravati, cui doveva porre rimedio l’attivismo frenetico degli anni scorsi, che ha portato alla adozione del Patto di Stabilità e Crescita (PSG), del Fondo monetario europeo (ESM) e della Banking Union. Dopo la crisi dei debiti sovrani ed i timori per il collasso dell’euro, adesso siamo alla crisi esistenziale dell’Europa.
L’Agenda per i prossimi dodici mesi ha un comune denominatore: un’Europa migliore. Dovrà proteggere, preservare il modo di vivere europeo, dare potere ai cittadini, difendere all’interno ed all’esterno, assumersi responsabilità. Il richiamo enfatico ai valori europei, alla pace, alla lotta contro il razzismo e le discriminazioni, alla condanna della pena di morte, alla indipendenza del sistema giudiziario segna la distanza dalla realta, quella economica. Tutto si affievolisce quando Junker richiama i principi fondamentali dell’economia sociale di mercato, contrapposta al Selvaggio West: “Stesso salario, a fronte dell’identico lavoro nel medesimo posto“. Un po’ poco, se non si inserisce il vincolo stabilito dell’articolo 36 della Costituzione italiana, secondo cui la retribuzione deve essere in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Junker prende coraggio, ed elenca due successi: la media del deficit pubblico è passato dal 6,3% del 2009 al 2% odierno; ben 8 milioni di persone hanno trovato lavoro dopo la crisi, di cui 1 milione in Spagna.
Ci sono, naturalmente, tanti problemi da affontare, dalla tassazione delle multinazionali, che devono pagare le tasse laddove producono i profitti. Il riferimento non è al Lussemburgo, che ben conosce, ma all’Irlanda. E’ libera di mettere le tasse che crede, ma deve incassare le imposte non pagate da Apple, per costruire scuole ed ospedali: è questo il risvolto sociale della tassazione agevolata. Sullo sfondo, un rosario di problemi, dal dumping dell’acciaio cinese al mondo agricolo che soffre per le mancate esportazioni in Russia. Tra le cose da fare, una normativa che attragga investimenti in connettività, la realizzazione del 5G, l’accesso gratuito ad internet wireless, la protezione dei diritti di proprietà intellettuale.
Politico consumato, Junker: prima blandisce l’uditorio, dicendosi preoccupato per la crisi dell’Europa; poi ne richiama i valori, ed elenca gli impegni che incombono. Si dice quindi soddisfatto per alcuni successi, ed infine tira fuori dal cilindro il raddoppio della dotazione finanziaria del Piano di investimenti che porta il suo nome: si passa da 116 a 315 miliardi di euro. Per Bruxelles è un altro bel boccone: altri soldi e altro potere.
Se, come conclude Juncker, “la solidarietà è il collante che tiene insieme l’Europa”, ben poca se ne è vista. Ne sanno qualcosa i Greci, ma soprattutto gli Italiani, costretti a subire una seconda, violenta recessione, imposta in nome del rigore e del mercato. Invece di aiutarci, ci hanno affondato. Le lacrime del coccodrillo non ci commuovono.