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Perché, dopo il Ttip, anche il Tpp è finito su un binario morto

Non c’è più tempo. Anche il Tpp, il Trans-Pacific Partnership, siglato non senza difficoltà appena un anno fa ad Atlanta dopo otto lunghi anni di negoziazione, è finito su un binario morto. E non per colpa dei paesi dell’area Asia-Pacifico, 11 in tutto dal Vietnam al Messico, ma per gli Stati Uniti, il dodicesimo player che, nonostante abbiano avuto in Obama il più grande sponsor dell’iniziativa, non riusciranno a far votare dal Congresso la ratifica dell’accordo prima del termine del mandato presidenziale.

È stato lo stesso Obama a sancire il rinvio proprio durante la sua ultima missione in Asia, la scorsa settimana, al vertice Asean di Laos. “Credo che sarà ratificato” – ha detto – “Ma siamo in una stagione elettorale ed è difficile portare avanti le cose. Ma dopo le elezioni, la gente potrà concentrarsi di nuovo sul perché è così importante”. Il problema, però, sostengono molti analisti è che la situazione post elezioni presidenziali sarà ancora peggiore. Perché se vincesse Donald Trump ha già fatto sapere che non se ne farà nulla in quanto la politica commerciale americana sarà più protezionistica e meno favorevole agli accordi di libero scambio. Ma anche se dovesse prevalere Hillary Clinton le cose non cambieranno di molto perché molti deputati democratici sono contrari o quantomeno tiepidi a portare avanti un progetto che doveva riequilibrare il potere negli Stati Uniti nell’area come contraltare alla supremazia cinese (che non a caso proprio per volere degli Usa era stata esclusa dal trattato).

Il più chiaro di tutti al riguardo è stato proprio il rappresentante al Commercio estero degli Stati Uniti, Make Froman che al New York Times ha detto: “Se il Tpp non verrà ratificato dal Congresso passeremo dal consolidare la nostra leadership nella regione alla consegna delle chiavi del castello alla Cina”.

Per questo ancora in queste ore l’amministrazione americana ricorda ai rappresentati sia democratici che repubblicani i benefici che il trattato potrebbe portare: la competitività degli Usa aumenterà e potrà generare benefici sul reddito globale, stimati in 77 miliardi di euro da qui al 2025 nei soli Stati Uniti, con  123,5 miliardi di euro addizionali per le esportazioni a stelle e strisce. Perché si aprono mercati e settori vitali come quello dei servizi e dell’agricoltura, offrendo al contempo maggiori protezioni nell’ambito della proprietà intellettuale. Ma questa favola non sembra proprio attecchire e in tempo di campagna elettorale sono gli stessi democratici, basta leggere le dichiarazioni del già candidato alle primarie, Bernie Sanders o Rosa DeLauro rappresentante democratico del Connecticut “non faremo nulla per ottenere i voti dal Congresso” per capire che vorrebbero affossare definitivamente l’accordo visto come “un favore alle multinazionali e non al popolo americano”.

In questo marasma il governo di Pechino sta lavorando parallelamente al Tpp e il premier Li Keqiang sta negoziando un accordo separato in Asia promettendo prestiti attraverso la creazione di una nuova banca e un fondo di 40 miliardi di dollari. A svelarlo è stato qualche giorno fa il primo ministro di Singapore, Lee Hsien Loog: “La ratifica degli Stati Uniti è una cartina di tornasole della credibilità e della serietà degli intenti americani”, ha detto ricordando come senza promettere la luna e senza venature politiche la “Cina si sta muovendo per offrire migliori garanzie fattuali alle economie del sud est asiatico”.

Per Obama sarebbe un colpo durissimo. Perché il Tpp era il grimaldello con cui riequilibrare la politica estera americana in un’area strategica a predominio cinese. Non a caso, ad esempio, uno dei paesi che maggiormente si era speso per il trattato, il Vietnam, che avrebbe avuto benefici enormi per la sua economia con una crescita del pil stimata dell’11% nel prossimo decennio, è fortemente preoccupato per il rinvio della ratifica dell’accordo che renderebbe Pechino ancora più influente, basta ricordare come è stata gestita la crisi delle isole nel mar cinese meridionale. Per non parlare del Giappone che oltre a soffrire l’egemonia cinese nell’area, puntava con decisione sul Tpp anche per risollevare le sorti di un’economia che dopo il boom degli anni Novanta vive in perenne stagnazione.

Il fallimento del Trans-Pacific Partnership, dopo che anche l’accordo di libero scambio tra Stati Uniti ed Europa è stato messo in soffitta (Ttip) consegnerebbe alla storia un presidente Obama impotente sui destini del commercio mondiale o, meglio, come ha scritto il columnist del Financial Times Martin Wolf “un nuotatore controcorrente nella marea della globalizzazione”.

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