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Un altro lato di Nick Cave

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Non sarà questa la sede per parlare dei traguardi raggiunti dal Nick Cave musicista, che sono tanti e ragguardevoli. Oltre all’acclamata proiezione di un documentario che lo vede come protagonista, One More Time With Feeling, in occasione di questo Festival di Venezia 2016, Nick Cave ha recentemente pubblicato in Italia il suo terzo libro, The Sick Bag Song.

Il suo esordio come scrittore risale al 1989, con And The Ass Saw The Angel, un viaggio nelle perversioni vere o immaginarie dell’Australia più puritana e bigotta, lontana mille miglia da quella rappresentata dall’odierno miracolo economico. Per ben inquadrare la trama del romanzo bisogna innanzitutto accennare a un episodio di una certa importanza per la mitologia rock, e scoprire che – come già narrato in due canzoni entrambe intitolate Tupelo rispettivamente di John Lee Hooker e dello stesso Nick Cave – il re del rock’n’roll Elvis Presley sopravvisse a un terribile diluvio che colpì la cittadina di Tupelo nel 1936. Vuole inoltre la leggenda (e Wikipedia lo conferma) che Elvis nascesse da parto gemellare, al quale il suo fratello primogenito non sopravvisse, e da madre alcolizzata.

Esattamente come accade a Euchrid, il protagonista di And The Ass Saw The Angel, la cui madre è devastata dall’abuso di superalcolici fatti in casa e la cui comunità assiste impotente a tre anni di diluvi e carestie. Euchrid però nasce muto, crede di udire voci d’ispirazione divina, si considera “uno spione” ai servizi di Dio e si riscopre sabotatore quando decide di opporsi alla fanatica comunità locale.

Si dice che in punto di morte ricordiamo chiaramente tutti gli istanti della nostra vita. Nel corso dell’intera narrazione Euchrid è immerso nelle sabbie mobili. Mentre lentamente affonda egli ripercorre gli episodi che lo hanno portato a covare vendetta e ad essere perseguitato dalla triste umanità che lo circonda con sanguinose e catastrofiche conseguenze. Suo padre prepara trappole per animali e ha l’hobby di costruire strutture con le carte da gioco, perennemente in bilico, pronte a frantumarsi come infatti accadrà anche alla sua fragile mente. Il villaggio, nel frattempo, degenera in preda ad una smania religiosa che trasforma i suoi abitanti in invasati assetati di sangue. Euchrid non può che rintanarsi nel suo “santuario”, poco più di un canile dove scorazzano bestie semiaffamate. Diventa il suo regno e lui lì diventa re, una parodia di Elvis Presley che appunto veniva considerato “the King of rock’n’roll”, entrambi perseguitati dal dubbio di essere ospiti non desiderati su questa terra, di aver usurpato il diritto alla vita ai rispettivi gemelli morti prematuramente durante il parto.

Il racconto alla lunga stanca, non regge le aspettative, i colpi di scena annoiano. Il linguaggio si rifà a William Faulkner ed è fin troppo letterario, basti pensare che Euchrid al posto di “bellezza” utilizza il termine “pulcritudine”, che era già desueto cent’anni fa. La lettura non ti mette certo di buon umore, provi un senso di inquietudine nel seguire gli avvenimenti che conducono il protagonista, mai veramente accettato dagli altri, a proclamarsi un messia della flagellazione nella sua guerra santa provocata dall’odio, ed è come se l’autore volesse dire in maniera straziante troppe cose allo stesso tempo. Viene da chiedersi: perché tanta miseria?

Tra And The Ass Saw The Angel e The Death Of Bunny Munro, il secondo libro uscito nel 2009, corre la stessa distanza che esiste tra le ballate di The Boatman’s Call  e la furia elettrica dell’assolo di chitarra in No Pussy Blues in pieno periodo Grinderman, per fare un esempio che può essere di aiuto a coloro che già conoscono la musica di Nick Cave. Si va dallo sperpero a una compattezza di scrittura che fa di The Death Of Bunny Munro uno spasso assoluto. Non avverti più né la verbosità né la pesantezza del pensiero dietro le parole perché qui l’autore descrive la realtà per quello che essa è effettivamente. Bunny è un personaggio abominevole, un donnaiolo da strapazzo completamente dominato dai suoi impulsi sessuali. Quando non trova una donna disposta ad accoppiarsi con lui si masturba nei bagni pubblici, persino al funerale della moglie suicidatasi a causa delle sue continue infedeltà, eccitato com’è dalla vista delle amiche di lei in abito scuro. E’ convinto di emanare un fascino irresistibile, ma se la malcapitata che ha preso di mira non si lascia sedurre, lui non esita a far ricorso a droghe e sedativi pur di portarsela a letto. Gli importa solo di se stesso e dei suoi insaziabili appetiti.

Bunny e il figlio scorazzano per le strade di Brighton e nelle periferie dell’Inghilterra meridionale in una Punto mezza scassata perché il padre lavora come venditore porta a porta di prodotti di bellezza, l’ideale per un uomo come lui perennemente arrapato, ubriaco, allucinato. Non so quanto ci sia di autobiografico in Bunny, certo è che Nick Cave ha confessato in un’intervista di essere in grado di scrivere una guida Michelin di tutti i centri di riabilitazione. “On the road” si imbattono in avventure picaresche che mettono a dura prova il presunto magnetismo del padre e le sue strategie di corteggiamento. Diventa progressivamente più disgustoso. A una cameriera che dice di chiamarsi River perché nata vicino a un fiume lui fa notare che per fortuna non è nata vicino a un cesso. Al suocero paralitico che lo accusa per il suo comportamento osceno risponde che lui almeno il culo se lo sa pulire da solo. Parcheggia sul posto riservato ai disabili e dice al figlio che lo aspetta in macchina: “se arriva un vigile fingi di essere spastico”. Disquisisce sulla qualità delle prestazioni erotiche (le eroinomani fanno la miglior fellatio, le tossiche che si fanno di crack la peggiore). A poco a poco Bunny inesorabilmente perde colpi. Gli oggetti che lo circondano hanno sempre la forma di un seno o di un sedere femminile, ma lui comincia nel contempo ad intravedere fantasmi, ad avere premonizioni, avvertire presenze estranee, a perdere il controllo. Si disintegra man mano che aumentano le sue dosi di alcol e sigarette. Ed è lì che noi maschietti iniziamo purtroppo ad identificarci. Non siamo forse tutti a volte dei patetici Bunny Munro che vagheggiano di cose e situazioni inesistenti, adattandole ai nostri piccoli deliri d’onnipotenza?

Ma la notizia positiva è che il figlio impara durante il tragitto più dall’irresistibile ottimismo del padre che dall’enciclopedia portatile in cui studia le rivoluzioni dei pianeti, la geografia e impara a memoria le capitali del mondo (magistrali le scene riguardanti la capitale della Mongolia, Ulan Bator). La lezione di vita numero uno in questo viaggio iniziatico è che non bisogna mai fidarsi degli operatori sociali e di chi agisce a fin di bene. Devi camminare con le tue gambe e trovarti da solo la strada nel mondo, alla faccia dei benpensanti. In fondo non è forse questo il vero messaggio del rock’n’roll? Comportarsi male e non curarsi mai di chi vuol farti la morale? Tutti i vaneggiamenti del padre saranno serviti a fare di Bunny Junior un figlio di buona donna in grado di cavarsela e di affrontare le batoste che il futuro e il mondo degli adulti hanno senz’altro ancora in serbo per lui.

Questo libro non lo leggi, te lo divori tanto è bello e fatto bene. Ma non è per palati fini. In fondo il protagonista è un uomo volgare e scorretto a dir poco. Ma perché poi ti riesce quasi simpatico? Per lo stesso motivo per cui molti americani voteranno Donald Trump?

La ventata di aria fresca di The Death Of Bunny Munro non è destinata a ripetersi con The Sick Bag Song, l’ultima fatica di Nick Cave dove si ha l’impressione di un appuntamento mancato, di un’operazione commerciale volta a mascherare un periodo di stallo creativo, se non fosse per una premonizione che la attraversa, a cui soltanto accennerò. Il libro è pervaso dal ricordo di un dodicenne morto cadendo dal ponte di una ferrovia quando l’autore stesso era bambino, in circostanze purtroppo simili alla recente scomparsa del figlio di Nick Cave. Ci si potrebbe dilungare sul mistero dell’arte che anticipa la vita ma è meglio lasciar perdere. Il dolore è dolore, e non c’è altro da aggiungere.

Alcune pagine di The Sick Bag Song risultano ovviamente godibili, altre vanno in profondità come Nick Cave ci ha ormai abituati, ma non ne avverti l’urgenza. Si tratta perlopiù di annotazioni scribacchiate sui sacchetti per il vomito da mal d’aereo, dispensate dalle compagnie di volo durante le tappe di un tour americano. Forniscono il resoconto delle sue passeggiate, i suoi pasti, i suoi aneddoti, le reminiscenze di incontri con personaggi famosi come Brian Ferry e Johnny Cash, addirittura dettagli sulla campagna promozionale del libro stesso. Vi trovi la descrizione di stanze d’albergo extra lusso, più o meno tutte uguali, che ospitano rockstar più o meno appassite, a cui somministrare iniezioni di steroidi per destarle dal torpore in vista dell’esibizione sul palco, nonostante il jet lag. E troppo spesso l’autore cade nel tranello che era riuscito ad evitare nei due lavori precedenti, dimenticando la regola d’oro secondo cui ciò che funziona in una canzone non necessariamente funziona nella stesura di un racconto. Solo a sprazzi gli riesce quel distillato di sublime ironia che ha imparato a cesellare in brani musicali come God Is In The House.  Lui stesso a volte commenta la pagina appena scritta e non sembra esserne soddisfatto. Se And The Ass Saw The Angel peccava per sovrabbondanza, The Sick Bag Song rivela pigrizia o mancanza di contenuti.

Eccone un estratto (non si capisce bene perché parli al plurale, forse allude a tutta la band):

Siamo rimasti a letto nello Sheraton Hotel di Nashville a guardare il soffitto. Ci siamo guardati allo specchio nel bagno dell’Hotel InterContinental di Kansas City, e abbiamo vomitato crostacei nel water del Grand Hotel di Minneapolis. Abbiamo compilato la nostra lista per le tintorie dell’Edmonton Fairmont Hotel Macdonald e del Ritz-Carlton di Washington. Ci siamo masturbati nel Bowery Hotel di New York City e nel Sunset Marquis di West Hollywood. Ci siamo seduti a fumare una sigaretta dopo l’altra nel roseto botanico del Ritz-Carlton di San Francisco. Ci hanno fatto delle avances nella lobby del W Hotel di Austin. Abbiamo trascorso la notte davanti alla TV del Four Seasons di Denver. Ci hanno fatto la manicure alla spa dello Shangri-La di Vancouver. Abbiamo guardato PornHub al 21c Museum Hotel di Louisville e anche al Nines di Portland. Abbiamo rubato gli accappatoi del Ritz-Carlton di Philadelphia. Abbiamo vinto grosse somme di denaro al casinò dell’MGM Grand Hotel di Detroit e abbiamo fatto un giro negli ascensori dell’attico del Trump di Toronto.

Un po’ banale, no?

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