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Vi spiego le vere pecche della politica economica italiana

Tutti i centri di analisi economica e di azione politica ripetono che occorre aumentare gli investimenti e la produttività. La legge di stabilità recentemente proposta riflette in minima parte questa necessità. All’origine vi è una diagnosi incompleta delle relazioni tra domanda aggregata e investimenti e una diagnosi mancante sulle cause della scarsa produttività. Non mi stancherò mai di ripetere che in un’economia variegata come quella italiana le medie non rappresentano più l’universo esaminato perché la distribuzione di frequenza non è normale e, quindi, non significativa. Bisogna perciò guardare dentro le medie per capirci qualcosa al fine di individuare una politica economica che aggredisca le singole cause, invece di una volta ad altri fini, spacciandoli per adeguati allo scopo.

Invece di concentrarsi sul binomio investimenti-produttività, il dibattito corrente sulla politica economica riguarda la carenza di domanda aggregata, una condizione necessaria ma non sufficiente per aumentare investimenti e produttività. Essa viene proposta come alternativa o iniziativa complementare a una politica dell’offerta (le riforme), senza tenere conto che sono entrambi preda delle richieste delle associazioni o gruppi di interesse. Una prima valutazione del problema sia ha rapportando alle unità di lavoro impiegate al Pil della pubblica amministrazione allargata (stimabile in 40% circa del totale), quello industriale (25%), agropastorale (5%) e dei servizi (residuo 30%).

La produttività del settore pubblico allargato è pari a uno, poiché il suo Pil è la spesa per il lavoro usato, con il paradosso che, se aumenta spesa pubblica lasciando immutata l’occupazione, la produttività cresce; tuttavia nel corso dell’attuale crisi, l’impiego pubblico si è ampliato e la produttività è restata immutata. La produttività dell’industria è invece grosso modo pari a quella dei principali concorrenti esteri essendo esposta alla concorrenza (le statistiche curate da Mediobanca lo confermano, individuando nel maggiore peso delle tasse, non del costo del lavoro, la minore redditività). La produttività dell’agroindustria, di cui si conosce poco e male, è invece crescente per i miglioramenti organizzativi, produttivi e commerciali in atto nel settore, mossa dalla qualità dei prodotti. Nei servizi il processo di introduzione dell’informatica è invece lento, per carenze nelle infrastrutture necessarie (si discute ancora della banca larga), molto gravi in alcune aree, nel loro uso carente da parte del mondo produttivo e nei ritardi nell’educazione degli utenti, soprattutto in età più avanzata.

Il problema della bassa produttività è quindi concentrato nel settore pubblico e in minor misura in quello dei servizi; per questi ultimi la spinta all’efficienza proveniente dalle tecnologie è un correttivo naturale alla loro minore efficienza. Dove la situazione appare drammatica è quindi nella pubblica amministrazione. La nuova legge di riforma della P.A. è allucinante per la sua illeggibilità (provate a farlo per credere) e inadeguatezza nell’affrontare i problemi di fondo della produttività. Essa rischia di aumentare il potere della burocrazia pubblica, che scrive i regolamenti di attuazione scaricando sui cittadini l’onere dell’adempimento della gragnuola di impegni che sono chiamati ad adempiere. Ciò induce i cittadini a investire una quantità enorme di tempo, sovente sottratta al lavoro.

Ne consegue che la produttività non solo non cresce nel settore pubblico, ma riduce quella del resto dell’economia. Esistono infiniti esempi a disposizione di coloro che non sono convinti che il problema della bassa produttività è concentrato soprattutto nel settore pubblico. Qualche esempio non guasta: il primo è l’autocertificazione negata da tutti gli uffici e le difficoltà create nel contatto telematico, reso difficile da siti incomprensibili e talvolta apertamente ostacolato dalle burocrazie che pretendono documenti cartacei, non di rado certificati da qualche altra autorità pubblica; il secondo esempio riguarda i rapporti con il fisco, di cui il contribuente è posto gratuitamente al suo servizio a seguito di regolamenti che il Parlamento raramente conosce. Fa cioè il lavoro che dovrebbero fare gli impiegati addetti.

Una recente lettera dell’Agenzia delle entrate esordisce con fare mellifluo e indisponente che “l’obiettivo di questa lettera è quello di instaurare un proficuo dialogo e favorire l’adempimento spontaneo degli obblighi tributari nell’ambito di un percorso di adempimento dei rapporti tra Fisco e contribuenti avviato dalla legge di stabilità per il 2015”; seguono richiami incomprensibili per richiedere un esborso di 35.407 euro aggiuntivi articolato in un elenco che include maggiore Irpef dovuta, sanzioni, interessi, addizionali statali, regionali e comunali (quest’ultima con specifica di “ravvedimento” e interessi sul ravvedimento sull’addizionale regionale), imposta sostitutiva, contributo di solidarietà e relative sanzioni, nonché interessi su questo contributo, per un totale di 15 voci, senza il ben che minimo riferimento a quale errore sia stato compiuto; poiché questa denuncia dei redditi è stata fatta da un bravo fiscalista che ha ricevuto istruzioni di pagare il dovuto, non si capisce quale sia l’errore da lui commesso, come sarebbe indispensabile che il contribuente conosca.

L’instaurazione di un metodo definito come “proficuo dialogo tra Fisco e contribuente” consiste nel presentare una lista di balzelli al cui pagamento puoi aderire spontaneamente. In breve una presa in giro. Naturalmente segue un’abile scappatoia da questa responsabilità: se non si è d’accordo si deve chiamare al telefono l’incaricato della pratica o recarsi di persona nell’ufficio competente, perdendo tempo da sottrarre alla produttività individuale. Un caso analogo è stato già denunciato mesi addietro su queste stesse colonne, nel totale disinteresse della politica, nonché della pubblica amministrazione. Si moltiplichi questo e altri casi simili per i milioni di volte che accadono e si avrà una spiegazione alla bassa produttività del Paese e del perché cresca l’antipolitica.

Ovviamente i dati qui usati devono essere considerati rozzi e ne occorrerebbero di più raffinati. L’Istat dovrebbe farsi carico di elaborarli sistematicamente, aumentando la sua produttività. Tuttavia questi calcoli colgono le grandi linee del problema. La nuova legge di stabilità (mai termine appare così improprio!) lo affronta solo marginalmente. Si cominci quindi a muovere i passi nella giusta direzione se si ritiene, come viene ripetuto di continuo, che le carenze di produttività siano il vero vincolo alla crescita del reddito e dell’occupazione del Paese.


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