Nella conferenza tenuta al Maxxi il 5 ottobre scorso Alessandro Piperno, fra le altre cose, ha condiviso col pubblico la sua sensazione che Roma – nonostante “i suoi orrori quotidiani” – stia diventando ai nostri giorni una materia interessante e ricca di spunti per i romanzieri.
A più riprese l’ha descritta nei suoi precedenti lavori. Talvolta come una città fatiscente e subtropicale, in altre occasioni addirittura come una città pericolosa e asfittica. Quando Piperno parla della campagna a nord di Roma, dalle parti della zona vip dell’Olgiata, l’ha ironicamente definita “anglosassone”. Gli è (raramente) capitato di commuoversi e vederla come “magnifica” e “soleggiata”. Via Condotti alle sei e mezzo di un giorno di dicembre è stata paragonata nientemeno che alla Prospettiva Nevskij di Gogol.
Non sottovaluterei l’ambizione di Piperno. In fondo, il suo chiodo fisso è sempre stato quello di fotografare lo stato di salute della borghesia ebraica romana. Essa – ricordiamolo – appartiene alla più antica comunità della diaspora in Occidente. Risale a ben prima della fondazione di altri analoghi microcosmi, europei e non solo, che hanno già riscosso grande fortuna nella letteratura di stampo ebraico. E i suoi membri possono considerarsi tra gli autentici “romani de’ Roma”a tutti gli effetti.
Nel recentissimo “Dove la storia finisce” uno dei protagonisti, reduce da un forzato esilio californiano durato sedici anni, e lontano dai creditori, si ritrova al cospetto di una Roma invecchiata male, coi soliti problemi del manto stradale e dell’immondizia. Rispetto all’America la città ha il pregio di garantire una “pacifica convivenza tra bellezza e squallore”, nel senso che non esiste una netta suddivisione tra ricchi e poveri e fortunatamente la città non è così ghettizzata nelle sue gerarchie sociali. Comunque, tutto cade a pezzi come ha sempre fatto. I dialoghi avvengono tra fila di cassonetti che emanano fetori insopportabili. I gabbiani hanno pose minacciose da culturista. Fin qui c’è molta verità e molto luogo comune.
Al di là dell’ambientazione stereotipata, ciò che conta è il tentativo, da parte dell’autore, di fare della sua narrazione un’inedita pastorale italiana, partendo – com’è sempre successo nei suoi lavori – da un punto d’osservazione scomodo e privilegiato, quello dell’ibrido. Nel corso degli anni Piperno ci ha ormai abituati a riflettere su alcuni personaggi che sono ebrei a metà, di solito da parte di padre, e perciò tecnicamente non ebrei (per quanto immersi nella vita della comunità) perché nell’ebraismo vige un sistema di discendenza matrilineare. Essi non si sentono a casa da nessuna parte, crescono ricevendo messaggi contraddittori da due visioni del mondo – quella ebraica e quella Gentile – spesso in contrasto tra loro. Non avendo nulla da difendere e nessuna causa da perorare sono in grado di sposarle tutte e vederle con una nitidezza che agli altri è preclusa. Sono indolenti e disimpegnati, a volte debosciati, ma sanno comprendere le motivazioni degli altri.
Che cosa osservano? Innanzitutto l’eterno scontro in seno alla comunità ebraica tra il desiderio di assimilazione e il culto della tradizione. L’ambiente romano si divide tra gli intransigenti difensori di millenaristici precetti difficili da rispettare e chi, invece, abbraccia una vocazione cosmopolita aperta alle contaminazioni col mondo esterno. Stravince ovviamente la seconda fazione. I personaggi di Piperno sono creature mondane, smaniose di farsi accettare, di promuoversi socialmente con armi lecite e illecite, profanatori e spergiuri. Sono grandi seduttori, edonisti, fatui, divertentissimi. Sguazzano tra scandalo e volgarità, dell’antisemitismo se ne fregano, considerano il malumore una perdita di tempo, pronti a chiederti un prestito o a stupirti con la loro generosità a seconda dell’estro. E d’inverno vanno in vacanza a Cortina.
Come gli abitanti di Pompei non si avvedono delle disgrazie imminenti. Danzano sull’orlo di un baratro. Le cene rituali a cui partecipano vanno sempre a finire male, e questo sarebbe il minimo. Mentre in profondità scorre un fiume sotterraneo e inquietante, loro pattinano noncuranti verso l’annientamento, ottimisti e colpevolmente ottusi nell’ostinato rifiuto di affrontare la realtà. Non serve a niente aprirsi alle nuove idee se ti mancano gli strumenti per restare in equilibrio, quando inevitabilmente la fortuna ti volgerà le spalle.
Dovrebbe esserci una legge a impedire la superficialità con cui i protagonisti si illudono di fronteggiare i capricci del destino. Piperno qui si dimostra ambiguo. Se da un lato proclama che l’ebraismo ultimamente va di moda, dall’altro instilla il dubbio che si stia approssimando l’ennesima fine dell’idillio ebraico con l’Europa. I casi in cui s’imbattono i suoi personaggi sono varianti più o meno minori dell’affare Dreyfus che tra il 1894 e il 1906 convinse definitivamente Theodor Herzl a perorare la causa sionista.
Sebbene Piperno, nei suoi scritti, sia abile a minimizzarne la portata (paragonandoli per esempio al caso Tortora), avverti comunque l’odore di zolfo dell’antisemitismo strisciante. Il problema non è se avrà inizio una nuova stagione di sofferenza, il problema è quando.
Di regola gli ebrei romani descritti da Piperno distano anni luce dal sionismo. In Israele il caldo è insopportabile, c’è troppa violenza e nessuno sa cucinare, per cui non hanno la benché minima intenzione di trasferirsi. Un insieme di stereotipi e di sincero senso di appartenenza all’Italia e all’Europa fa sì che quasi nessuno di loro prenda seriamente in considerazione l’ipotesi di fare aliyah, cioè di stabilirsi in Israele. Sarà sempre così?