Dalla Germania si susseguono ormai ogni giorno indiscrezioni sull’esistenza/inesistenza di un piano di salvataggio statale di Deutsche Bank. Posto che la multa Usa non è stata definita e che la banca ha finora negato aumenti di capitale, la questione è certamente tra le maggiori preoccupazioni della cancelliera Angela Merkel: in caso di necessità di Deutsche Bank (o di altre banche), è preferibile intervenire o no con nuovi aiuti pubblici? Dalla scelta potrà dipendere il futuro politico di Angela Merkel e la stabilità delle banche nazionali. Non ci sono molti dubbi su quale sarebbe la scelta della cancelliera se avesse piena libertà d’azione. Basti pensare a come si è comportato il governo tedesco prima dell’estate 2013: ha impegnato 250 miliardi di euro per le banche, senza i quali l’intero sistema tedesco sarebbe collassato. Nessun altro Paese in Europa ha impiegato così tanto denaro per il settore finanziario. Merkel ha utilizzato ingenti risorse pubbliche per evitare che il fallimento delle banche potesse scatenare il panico tra i risparmiatori.
Ma ora lo scenario è cambiato e Merkel non ha più le mani libere come allora. C’è il rischio di una tempesta perfetta, che può far esplodere le contraddizioni della Germania. Per la Merkel la strada degli aiuti di Stato, battuta con frequenza in passato, è diventata problematica per due ragioni: una esterna (le nuove regole europee, imposte proprio dalla Germania) e una interna (la perdita di consenso in vista delle elezioni di autunno).
Dal 2013 il governo tedesco, con un rapida giravolta (subito dopo aver completato i salvataggi), è diventato il paladino del mantra “non usare il denaro dei contribuenti per le banche”. Di questo principio nessuno dubita in generale. C’è un problema, però, che la Germania ha fatto finta di non ricordare: far pagare i risparmiatori (anche quelli con i titoli più rischiosi, come accaduto per le quattro banche italiane messe in risoluzione) può scatenare crisi di fiducia negli istituti, anche quelli sani. Inoltre, l’assenza di strumenti di protezione di ultima istanza espone le banche a una maggiore vulnerabilità (che, alla fine, rende anche più probabile l’effettivo utilizzo di risorse pubbliche).
Questi problemi non sono mai stati vissuti finora da banche in Germania perché il governo si era mosso per tempo prima del 2013. Da allora Merkel è passata sul versante opposto: la difesa dei contribuenti è stata rivendicata proprio dal Paese che li aveva difesi meno di tutti. Nei fatti il mantra della cancelliera Merkel è stato un altro: non utilizzare il denaro dei contribuenti tedeschi per le banche di altri Paesi. Questo interesse nazionale, travestito spesso da “rigore”, è stato il filo conduttore che ha unito la rigidità su burden sharing e bail-in (immediato e retroattivo) e lo stop a ogni condivisione dei rischi (attraverso backstop pubblico e garanzia comune sui depositi). L’Unione bancaria è rimasta zoppa. Questa situazione di fragilità ha messo in difficoltà le banche degli altri Paesi e le ha lasciate senza reti di protezione (quelle nazionali non sono state sostituite da meccanismi sovranazionali).
Lo si è visto anche in Italia. La politica, meno attenta di quella tedesca, ha accettato la stretta delle regole Ue. Gli effetti della recessione si sono manifestati sulle banche con più evidenza dopo il 2013. Così il settore, in assenza di bad bank e risorse pubbliche (ma anche di uno strumento privato come il Fitd), ha dovuto ingegnarsi con soluzioni come il fondo Atlante, che tuttavia hanno avuto l’inevitabile difetto delle risorse limitate a disposizione. Così i problemi di alcune banche si sono trascinati a lungo: basti pensare alla vicenda Mps, tuttora alle prese con manovre per realizzare l’aumento di capitale senza risorse pubbliche. Lo stesso è accaduto negli altri Paesi del Sud Europa che hanno sperimentato il burden sharing. Nel frattempo le banche tedesche hanno goduto di maggiore tranquillità, grazie alla protezione (esplicita o implicita) dello Stato, dovuta anche a un debito pubblico sotto controllo (altro merito della politica tedesca).
Ora però i problemi delle banche in Germania, rimasti per anni sotto il tappeto, sono riemersi. I 250 miliardi di aiuti non sono bastati. Sono tornati i dubbi sulle attività finanziarie e sulla solidità degli istituti. La maggior parte degli osservatori ritiene che, se necessario, la Merkel non esiterebbe a sfuggire alle regole Ue che proprio la Germania ha imposto all’Europa. La stampa tedesca non prende neppure in considerazione obiezioni da Bruxelles. In teoria ogni sostegno statale sarebbe vincolato al burden sharing. Non è escluso, però, che la cancelliera possa sfuggire al coinvolgimento dei privati, utilizzando le deroghe previste per i rischi sistemici (e Deutsche Bank ne ha più di ogni altra banca al mondo secondo il Fmi) e per gli istituti già pubblici (come le landesbank).
La strada della risoluzione e del bail-in di una grande banca sarebbe molto pericolosa, non solo per la Germania. La nuova legge tedesca che ha adattato la Brrd prevede dal 2017 la subordinazione dei titoli senior rispetto ad altre passività. Merkel potrebbe attingere al Fondo di risoluzione alimentato dalle banche Ue, ma solo dopo aver fatto pagare i privati (anche senior), con pesantissime conseguenze per il Paese e per l’Europa. Ecco perché questa opzione da molti è considerata di fatto impossibile. Le regole europee in ogni caso sembrano spaventare la cancelliera meno delle elezioni. Molti tedeschi sono contrari all’impiego di nuove risorse. E comunque anche un mancato salvataggio avrebbe conseguenze per il voto. Perciò Merkel oggi spera innanzitutto che la situazione non si aggravi. Negli altri Paesi c’è la speranza che le difficoltà delle banche tedesche spingano la Germania a una maggiore ragionevolezza sulle regole dei salvataggi bancari.
(Articolo pubblicato su MF/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)