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Ecco come Vigilanza Bce e Commissione Ue aggravano lo stato delle banche europee

L’attenzione sulle banche italiane è molto alta sia a livello europeo (vigilanza Bce) che internazionale (Fmi). Basti vedere quanto scritto nell’ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria globale del Fondo monetario: l’organo di Washington non ha citato neppure una volta Deutsche Bank, che a fine giugno era considerata «il maggiore contribuente netto ai rischi sistemici tra le grandi banche globali», nonostante nel frattempo sia anche insorto il rischio di una multa fino a 14 miliardi di euro. Il Fmi ha spostato invece l’attenzione su Mps e sulle piccole banche italiane, chiedendo per queste ultime (perlopiù irrilevanti per la stabilità finanziaria globale) una revisione della qualità dell’attivo.

La cautela del Fmi e dei suoi vertici nel nominare Deutsche Bank ha due spiegazioni: la maggiore forza politica della Germania; il timore di innescare una crisi sui mercati per la situazione della banca tedesca. Sottolineare i problemi degli istituti italiani e portoghesi, invece, non impegna più di tanto, e garantisce sempre una buona reputazione di analisi rigorosa.

Il Fmi si è soffermato anche sulle lacune di Banca d’Italia, ma non si è occupato degli errori dei vigilanti tedeschi, le cui banche hanno avuto bisogno di 250 miliardi di aiuti di Stato. In Germania gli istituti finanziari hanno perso miliardi con i subprime e il business navale, hanno commesso truffe sui cambi e sui tassi interbancari e sono accusati di registrare i derivati in bilancio con prassi contabili discutibili. Un rilievo ben maggiore, nell’analisi dell’istituto guidato da Christine Lagarde, è stato dato ai crediti deteriorati delle banche dei Paesi del Sud Europa: di certo un problema significativo, da affrontare senza esitazioni, intervenendo anche sui problemi di governance che in Italia hanno aggravato gli effetti della recessione. Ma non c’è proporzione tra lo spazio dedicato alle diverse questioni.

Anche tra i vigilanti europei i problemi connessi all’attività speculativa delle banche sono un tabù pressoché impronunciabile, a differenza di quelli legati a credito e sofferenze. Romano Prodi, dall’alto della sua esperienza come presidente della Commissione Ue e presidente del Consiglio, nei giorni scorsi ha osservato che certe eccessive attenzioni sulle banche potrebbero essere un modo «per offrire ai mercati una pecora zoppa da mangiare». La questione è delicata perché in gioco c’è la salute dell’intera economia italiana, basata quasi interamente sugli istituti di credito.

C’è però un altro elemento da considerare. In questa fase, ancor più che in passato, un’eccessiva severità sul capitale e sulla qualità degli asset degli istituti italiani può risultare dannosa, per una ragione in particolare: oggi mancano strumenti per gestire e superare le difficoltà delle banche, così puntualmente indicati dagli organi europei e internazionali. Non esistono scorciatoie: le carenze di capitale di una banca si possono colmare con denaro privato o pubblico. Le risorse private in Italia sono al termine: dopo le iniezioni per il fondo di risoluzione, per quello sui depositi, per il fondo volontario e per Atlante, ora le banche non sono più disposte a esborsi significativi, anche a causa delle forti pressioni sulla redditività. Gli investitori internazionali sono poco attratti dalle banche, visti i bassi ritorni attesi. Quindi non è affatto facile trovare denaro privato, come si è visto nel caso di Mps. Inoltre le regole europee dal 2013 non consentono più di utilizzare denaro pubblico, se non dopo l’applicazione del burden sharing e del bail-in, che però rischia di peggiorare la situazione, diffondendo la sfiducia anche negli istituti sani (è stata questa l’esperienza delle risoluzioni in Italia). Le normative sugli aiuti di Stato hanno bloccato persino gli interventi preventivi del Fondo interbancario, che avrebbero consentito costi inferiori rispetto alle risoluzioni.

Perciò, mai come ora, una vigilanza eccessivamente rigida è dannosa per il credito e l’economia. Giustamente si citano gli stress test Usa come caso di successo, dimenticando però che gli esami sono stati utili soltanto perché il governo americano ha ricapitalizzato le banche per tutto l’importo rivelatosi necessario. Senza queste risorse, le banche americane sarebbero state soltanto esposte a una maggiore vulnerabilità sui mercati. Come è avvenuto in Europa dopo le prove di stress. Non serve a nulla indicare le difficoltà delle banche (soprattutto in scenari avversi che non si realizzeranno mai), se poi non si mette a disposizione una soluzione per i problemi individuati.

Allo stesso modo i continui richiami alla riduzione delle sofferenze, per quanto giusti in assoluto, hanno poco senso se contemporaneamente sono negati strumenti come la bad bank o le ricapitalizzazioni pubbliche. In assenza di queste soluzioni straordinarie, non ci sono alternative a uno smaltimento che si protrarrà per molti anni. I rilievi arrivano spesso dagli stessi Paesi, in primis la Germania, che prima del 2013 hanno utilizzato aiuti di Stato in modo ingente, e sarebbero pronti a utilizzarli di nuovo se fosse necessario. Si vogliono banche con più capitale e meno sofferenze (chi non lo vorrebbe del resto), ma si dimentica che non ci sono risorse private o pubbliche. Così è piuttosto facile fare il supervisore o l’analista. I vigilanti non dovrebbero essere più giudicati soltanto per la loro severità (come si fa adesso, dando per scontato che più ce n’è meglio è), ma anche per il pragmatismo e l’efficacia nel garantire un settore bancario capace di finanziare l’economia. Altrimenti i supervisori continueranno a badare soltanto alla «solidità e sicurezza» delle singole banche, dimenticando che il più importante fattore di stabilità è la crescita economica. Nello scenario attuale, privo di meccanismi di rafforzamento (privati o pubblici, europei o nazionali) ulteriori giri di vite sulle banche causerebbero soltanto una nuova riduzione del credito e, a catena, nuovi contraccolpi per l’economia. Perciò oggi serve più che mai cautela nella vigilanza: l’austerità bancaria è dannosa quanto quella nei confronti degli Stati. Ma nello stesso tempo, per rafforzare davvero il settore, occorre che l’Unione bancaria, dopo essersi concentrata a lungo nella riduzione dei rischi (soprattutto di alcuni Paesi), pensi anche alla loro condivisione.

(Pubblicato su MF/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)


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