“La campagna elettorale a volte può essere come l’Inferno di Dante”, ha detto Barack Obama alla sua ultima cena di Stato, dedicata all’Italia, che si è tenuta ieri a Washington, dopo l’incontro bilaterale con il premier Matteo Renzi. E ieri, nello stesso giorno della visita diplomatica, nonché alla vigilia del terzo e ultimo dibattito presidenziale, il feroce girone dantesco delle elezioni Usa 2016 è stato al centro di un incontro del Club Relazioni Esterne (Cre), focalizzato sulle tattiche di comunicazione del tycoon populista e della prima donna (e nonna) mai arrivata così vicina al pulsante rosso.
“Presidenziali Usa 2016: E’ la comunicazione, bellezza. Le strategie media di Hillary e Donald per arrivare alla Casa Bianca” è il titolo del panel debate organizzato dal pensatoio presieduto da Stefania Salustri, responsabile Media relations dell’Aspen Institute Italia, cui hanno partecipato Jordan Foresi, già corrispondente dagli Stati Uniti di SkyTg24, Giampiero Gramaglia, membro del consiglio direttivo del Club relazioni esterne e consigliere per la comunicazione dell’Istituto affari internazionali, Paolo Mazzoletti, presidente onorario del Club relazioni esterne e membro del consiglio di amministrazione Centro studi americani, Edoardo Novelli, docente di Comunicazione politica all’Università Roma Tre, e Ugo Tramballi, editorialista per Il Sole 24 ore.
Salustri ha introdotto l’incontro sottolineando il ruolo della televisione, che rimane centrale anche nell’era di internet: “Il primo dibattito è stato il più seguito della storia americana, con 100 milioni di telespettatori. Ma se da un lato Trump funziona sullo schermo perché cavalca la rabbia e le paure della classe media con ricette efficaci sul piano della comunicazione, dall’altro queste si rivelano nient’altro che slogan”. Slogan conditi da bugie, puntualmente smascherate dal minuzioso fact checking dei giornali americani: “Le verifiche che seguono i suoi discorsi pubblici sono contro Trump, ma ai suoi sembra non interessare”.
Si tratta di una campagna particolarmente divisiva, nella quale Hillary soffre il non poter puntare in modo decisivo al voto femminile sfruttando le sortite sessiste dell’avversario – come il video uscito due giorni prima del Town Hall debate, nel quale Trump affermava che “se sei famoso le donne ti fanno fare ciò che vuoi”. “Se Hillary lo avesse fatto”, prosegue Salustri, “avrebbe prestato il fianco a colpi bassi sulle vicende pregresse del marito. Dunque, a mobilitare le donne americane, ci ha pensato Michelle”.
D’accordo con Salustri è Jordan Foresi: “Make america great again è uno spot, non un’agenda politica. Trump è stato bravo all’inizio della campagna, quando è riuscito a scavare nell’America profonda e a intercettare il malessere dei colletti blu. Poi ha subito una battuta d’arresto, perché non ha esperienza internazionale e gioca tutto su boutade e titoloni. Negli Stati Uniti amano le parole forti e la comunicazione d’impatto, e non sopportano la complessità: se Trump, dunque, fa lo showman e diverte, Clinton è forte della propria competenza di ex segretario di Stato, ex senatrice, ex first lady, ma viene vista come una professoressa e non scalda i cuori”. Secondo alcuni, insomma, la vittoria di Hillary nei primi due confronti non poggia sull’aver solleticato la pancia dell’elettorato americano, ma in buona parte sugli errori di Trump.
Entrambi i candidati vengono amati e detestati in questa elezione che più polarizzata non si può. Ma perché alcuni non sopportano Hillary? “Perché non sono abituati ad avere, come noi, sempre gli stessi volti da trent’anni nella scena politica”, spiega Ugo Tramballi. “First lady di alto profilo per otto anni, segretario di Stato di una superpotenza, senatrice di New York, dove risiedono tutte le grandi lobby. Clinton è un candidato mediocre, ma potrebbe essere un presidente eccellente, perché nella gestione delle politiche ha dimostrato di avere grandi capacità. Probabilmente, se verrà eletta, riporterà gli Stati Uniti ad avere una presenza politica molto più forte nelle regioni con cui Obama aveva staccato la spina, Medio Oriente, Russia, Cina e Paesi Arabi”.
La storia di successo della comunicazione di Trump, secondo Giampiero Gramaglia, si è fermata alle primarie, fase in cui è riuscito a sormontare l’opposizione da parte dell’establishment del partito e dei conservatori moderati. Nel momento in cui ha cambiato pelle cercando di parlare ai moderati centristi e agli indecisi, ha mostrato i suoi limiti. Altro punto debole del candidato repubblicano è il suo clan femminile: “Ha tante mogli, di cui la prima, Ivana, lo contrasta, mentre quella attuale, Melania, è stata messa da parte dopo la gaffe commessa durante il suo primo discorso. L’unica donna che si ritrova accanto è la figlia, Ivanka, molto combattiva e dalla personalità forte”.
Secondo Edoardo Novelli, oggi lo spirito con cui elettori e commentatori assistono a un presidential debate è più quello del tifoso che va a vedere un match, che quello del cittadino, desideroso di informarsi. “Siamo nella fase della post-verità, non conta più nulla se i candidati mentono e vengono scoperti dal fact checking dei giornali: ci sono altri percorsi di informazione e di circolazione delle notizie, cioè la rete, che non vengono consultati per informarsi, ma per trovare conferme alle proprie opinioni. I meccanismi con cui si forma l’opinione pubblica stanno inesorabilmente cambiando”. E di conseguenza cambiano le modalità con cui i cittadini decidono cosa fare alle urne, come spiega Paolo Mazzoletti: “Nei dibattiti ognuno parla ai propri elettori, il confronto non sposta voti. Nonostante i sofisticati sistemi di bigdata e profiling, leggere la pancia dell’opinione pubblica oggi è più difficile del passato, quando si usavano i sondaggi e i campionamenti. Oggi ci sono fasce di elettori di cui non si riescono a cogliere le intenzioni, a causa della volubilità del voto: se in passato il partito faceva parte della propria identità, oggi il voto è dettato dalle suggestioni del momento”.