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Che cosa preoccupa davvero Theresa May

Venerdì 21 ottobre, Theresa May ha superato il traguardo dei 100 giorni di governo. Finora i britannici mostrano di gradire il nuovo corso conservatore, anche se le trattative per la Brexit con l’Unione Europea, le schermaglie con le Home Nations e la situazione parlamentare non particolarmente favorevole – May ha solo 17 deputati di maggioranza – fanno presagire a un futuro prossimo tutt’altro che roseo. Non sarà un plain sailing per la premier britannica, e i sondaggi, che danno dagli 8 ai 18 punti di vantaggio ai Tories rispetto ai laburisti di Jeremy Corbyn, non devono lasciar pensare a un’ondata conservatrice che sta abbattendosi sul Regno Unito: entrambi i partiti si sono dimostrati inaffidabili e rissosi negli ultimi mesi, e la Brexit ha solo esacerbato le divisioni interne. La presenza di Corbyn – l’aggettivo che ricorre maggiormente per definirlo è unelectable, ineleggibile – ai vertici del Labour spiega il consenso generalizzato per la May, più che un’adesione ideologica o valoriale ai Tories da parte degli elettori.

Sin dalla presentazione della sua candidatura a leader dei Tories a Birmingham, Theresa May ha posto l’accento sulle disuguaglianze nella società britannica, affermando di volere costruire un partito – e un paese – che “funzioni e che si occupi per tutti, non di pochi”, in piena tradizione One-Nation, il Torismo paternalista e interclassista che ha avuto in Benjamin Disraeli il suo fondatore, e, nel Novecento, in Harold MacMillan e Ted Heath gli esponenti più in vista. I più entusiasti di questo ritorno al passato sono stati James Forsyth e Isabel Hardman, firme di punta del settimanale conservatore The Spectator, che hanno addirittura suggerito di rinominare il partito come Workers Party, partito dei Lavoratori. Sempre a Birmingham, al grande centro congressuale dell’ICC poco prima della zona dei canali, la May ha ribadito alla nazione che la Brexit ci sarà, annunciando che entro marzo il famoso articolo 50 del Trattato di Lisbona sarà impugnato, determinando concretamente il percorso di uscita del Regno Unito dall’Unione.

Tutto semplice quindi? Nulla di più lontano dal vero. All’interno dei Tories le divisioni sulla Brexit sono sempre alte, e il segretario di Stato per l’Uscita dall’Ue, David Davis, si sta trovando in difficoltà anche di fronte a paesi come la Scozia, che hanno votato per il Remain e che non intendono rinunciare ai vantaggi dell’Unione. May ha affermato che la Scozia, il Galles e l’Irlanda del Nord avranno un ruolo al tavolo dei negoziati con l’Ue, ma non è chiaro quali rivendicazioni potranno essere soddisfatte nel concreto: la Scozia della premier indipendentista Nicola Sturgeon è parte fondamentale del Regno, e il voto favorevole al Remain conta esattamente come quello dei cittadini di Londra, anche loro remainers convinti. Quindi poco all’interno di un contesto che ha visto prevalere il Leave al referendum del 23 giugno scorso.

Proprio il sindaco di Londra, il laburista Sadiq Khan, sta facendo di tutto per rassicurare gli investitori stranieri che Londra rimarrà una città cosmopolita e globale, nonostante la Brexit. L’annuncio del Presidente della British Bankers Association (BBA), Anthony Browne, sull’addio a Londra delle sedi delle principali banche mondiali all’inizio del 2017 certo non ha giovato alla causa di Khan, anche se la Londonpendence, l’indipendenza di Londra dal resto dello Uk, acquista visibilità, adepti e nuovi siti giorno dopo giorno.

Il passaggio più difficile però per la May sarà quello parlamentare. Si presume che ci sarà un dibattito sulla Brexit ma che la Camera dei Comuni non sarà chiamata a ratificare la decisione sull’articolo 50 del Trattato di Lisbona. Anche perché in quel caso ci sarebbero problemi. Lord Heseltine, Tory europeista e uno dei grandees del partito, ha già detto esplicitamente che ai Comuni non c’è una maggioranza di brexiteers, ma un altro dato dovrebbe far riflettere: May ha 17 deputati di maggioranza, ma sono molti di più i ministri e i sottosegretari cameroniani “licenziati” dalla May nel suo rimpasto una volta diventata premier. Uno di questi, George Osborne, si dice progetti la vendetta da quel giorno. Un altro, Michael Gove, lo Iago della fallita candidatura a leader di Boris Johnson, anche. In fondo, è dalla caduta di Margaret Thatcher che i Tories non trovano pace sull’Europa. E il passaggio della May da “quiet Remainer” a “committed Leaver” – come l’ha definita la Bbc – non è passato di certo inosservato.


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