Matteo Salvini ha gioito troppo presto. Dagli schermi dei tg nazionali sempre pronti a rilanciare ogni sua boutade, domenica ha chiesto di fare come in Ungheria. Non aveva ancora visto i risultati del referendum anti-immigrati. Eppure avrebbe dovuto sapere che l’appello diretto al popolo è, direbbero i giornalisti sportivi, una lotteria, proprio come i rigori. Una lezione che in fondo vale anche per l’altro Matteo, cioè Renzi.
A ulteriore conferma c’è l’altro referendum che si è concluso ieri con un esito inaspettato: quello in Colombia sull’accordo di pace tra il governo e le Farc le quali, per la maggioranza, sia pur risicata, degli elettori restano una banda di terroristi responsabili di innumerevoli violenze, alla faccia di vorrebbe candidare le Forze armate rivoluzionarie colombiane addirittura al premio Nobel per la pace (per quel che vale, ormai).
La “lotteria” ungherese è senza dubbio la più importante per l’Italia e per l’Europa. Cosa ci ha insegnato il voto? In primo luogo che Viktor Orbán non può disporre come vuole del popolo magiaro. Ed è un bene. Ha il consenso di una grande e vociante minoranza, può usarla ancora contro gli immigrati, tuttavia non come una clava contro l’Unione europea. Teniamo presente che, anche se avesse vinto, l’esito non sarebbe stato valido per la Ue, ma certo il suo potere contrattuale verso Bruxelles sarebbe diventato dirompente.
Ciò vuol dire che la maggioranza degli ungheresi sono per accogliere gli immigrati secondo le quote stabilite dalla Ue? Non lo sappiamo. A giudicare dall’esito delle elezioni politiche che hanno visto la forte affermazione dello Jobbik (acronimo di Destra comunitaria della gioventù), il partito razzista e neo-fascista, potremmo dedurre che non è così. Disertare le urne non è un consapevole no, anche se è una tattica legittima per affermare il dissenso. Orbán userà anche questo argomento nel suo braccio di ferro con Bruxelles.
L’immigrazione, dunque, resta una ferita aperta sia sul fronte orientale sia sul fronte sud dove oggi si ricorda la tragedia di Lampedusa. Anzi, è la ferita che più fa sanguinare la Ue, più dell’economia, più della moneta unica, più dei debiti sovrani, della Grecia o della sempiterna questione italiana.
Se è così, meglio non cantare vittoria. E’ consentito solo un sospiro di sollievo. Bisogna prendere in mano la patata bollente senza passarsela di mano in mano, ripartendo dal contestato (soprattutto da parte italiana) vertice di Bratislava. E’ inutile disconoscere l’importanza, per la sicurezza e la pace in Europa, dei Paesi europei centrorientali, quelli del patto di Visegrád (Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia e Ungheria). Questo non significa mettere in secondo piano il Mediterraneo; anzi, l’instabilità del Nord Africa e del Medio Oriente è la madre di tutte le odierne migrazioni.
Per evitare conflitti infondati e controproducenti, occorre che i maggiori Paesi europei, a cominciare dai “padri fondatori”, stabiliscano una linea comune e traccino una sorta di divisione del lavoro. Alla Germania tocca essere il punto di riferimento per la Mitteleuropa, all’Italia spetta il Mediterraneo in collaborazione con la Spagna. La Francia, vista anche la sua storica proiezione africana (frutto del colonialismo, ma anche dell’ambizioso progetto francofono) è il vero anello di congiunzione. Potrebbe essere questa l’architettura concreta della difesa europea, che non coincide con la missione della Nato, ma la integra senza contraddirla.
Nel suo editoriale domenicale il direttore della Stampa Maurizio Molinari invita l’Italia a definire con chiarezza i propri interessi e ad acquisire un ruolo determinante nel Mediterraneo. Non se ne parla per la prima volta, naturalmente; ma proprio questo è il problema: se ne parla soltanto sui giornali, nei convegni, sulle riviste specializzate, senza che diventi il punto di partenza per una vera politica estera e di sicurezza.