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Deutsche Bank, cosa ha combinato Josef Ackermann

Josef Ackermann

“Vanità, avidità, provincialismo, codardia, complessi di inferiorità, arroganza, decadenza, superbia, incapacità, ingenuità, ottusità, immaturità, falsità, incompetenza, debolezza  – chi è alla ricerca di ragioni che spieghino la caduta libera della Deutsche Bank, può liberamente attingere a questo catalogo-“. Inizia così il corposo dossier che lo Spiegel ha realizzato sulla parabola discendente del più grande istituto di credito privato tedesco ed europeo, ora appena al 15esimo posto. Gli aggettivi qui elencati definiscono tutti coloro che dal 1994 in poi e sotto la guida dei grandi boss che si sono succeduti  – Hilmar Kopper, Rolf Breuer, Josef Ackermann (nella foto), Anshu Jain e Jürgen Fitschen ­ – hanno preso parte alla grande abbuffata.

CHI È JOSEF ACKERMANN 

Ma ce n’è uno in particolare che spicca su tutti loro. Questo qualcuno si chiama Josef Ackermann. Banchiere svizzero, mai particolarmente amato dall’opinione pubblica tedesca, tenuto però in gran conto da Angela Merkel e dai ministri finanziari. Almeno fino a quando Ackermann, dopo aver raccomandato alle banche in difficoltà di avvalersi del fondo di salvataggio (peraltro consigliato anche da lui alla grande coalizione al governo), dice che certo, “la Deutsche Bank mai e poi mai se ne avvarrebbe, sarebbe uno smacco insopportabile”. È tale la sua influenza che nel 2011 il New York Times gli dedicava un articolo/ritratto titolato: “Deutsche Bank’s Chief Casts Long Shadow in Europe” (L’ombra lunga del capo della Deutsche Bank sull’Europa). Secondo gli autori Jack Ewing e Liz Alderman, Ackermann in qualità di direttore esecutivo della più grande banca europea ed espressione della potenza economica tedesca, è presente e protagonista come pochi altri in un  numero così cospicuo di centri decisionali. Motivo per cui Ackermann contribuisce – “nel bene e nel male” – a forgiare il futuro economico e finanziario dell’Europa. Assai più diretto e velenoso è il giudizio dell’ex capo economista del FMI Simon Johnson, secondo il quale Ackermann sarebbe addirittura “uno dei banchieri più pericolosi al mondo”.

LA MOSSA VINCENTE 

Con Ackermann, ricorda lo Spiegel, la svolta della Deutsche Bank verso il modello anglosassone è definitiva e porta con sé anche un cambiamento radicale del ruolo del consiglio amministrativo. Fino ad allora, infatti, il capo della Deutsche Bank era portavoce dello stesso, semplicemente primus inter pares. Era ovviamente scontato che le decisioni il direttorio le prendesse all’unanimità. Ackermann introduce invece la figura del CEO, Chief Executive Officer. Sarà d’ora in poi esclusivamente il CEO a tenere in mano tutti i bandoli della matassa. Sotto Ackermann i membri del vertice passano da 9 a 4, mentre il neonato Group Executive Committee (GEC), si compone di 12 membri e diventa di fatto un nuovo centro di potere, una sorta di vertice ombra. Del GEC fanno parte i membri del direttorio, più sette manager che sono poi i capi delle maggiori divisioni dell’istituto. Tutti loro fanno direttamente capo/rapporto a Ackermann. Un cambiamento che per qualcuno diventa anche difficile da reggere sul piano psicologico. Ackermann ha fama di essere un capo esigente, che se del caso non disdegna nemmeno metodi di terrorismo psicologico affinché vengano raggiunti gli obiettivi che lui ha posto, e cioè rendite sempre più alte. Avendo come unico referente Ackermann, gli investment banker accedono ora più facilmente alle risorse da investire. Il GEC evita inoltre grane con gli azionisti, perché diversamente dagli stipendi dei membri del consiglio direttivo che figurano nel rapporto annuale, gli emolumenti ai membri del GEC non sono elencati. Infine, con la ristrutturazione dei vertici, cioè delle loro competenze, Ackermann mette a segno un altro importante colpo: “Con lo spostamento del peso decisionale dal comitato direttivo a quello esecutivo (cioè al GEC), il consiglio  di sorveglianza perde di fatto quasi tutto il suo potere di intervento sulla gestione dell’istituto”.

Queste riassetto completo darà anche i suoi frutti, tant’è che all’apice del successo la banca raggiungerà una rendita di patrimonio lorda del 31 per cento. Cioè il doppio rispetto al 1994. Ma, scrive lo Spiegel: “I metodi utilizzati sono il più delle volte inusuali se non addirittura al limite del lecito”. Per esempio nel caso della rendita patrimoniale. La stessa aumenta quando aumentano i guadagni, ma aumenta anche quando il patrimonio diminuisce. E se queste due cose avvengono contemporaneamente, ne scaturisce un dato particolarmente incoraggiante. “Ackerman non da tregua ai suoi, li spinge a ricomperare i titoli Deutsche Bank e mandarli poi al macero. Nulla di illegale, lo fanno anche altre società per azioni per diminuire il proprio patrimonio. Il fatto è che Ackermann intacca la sostanza futura dell’istituto, per poter presentare qui e ora risultati abbelliti ad hoc”.

ACKERMAN’S LIST 

Ackermann ha ripetutamente sostenuto di aver sempre agito e amministrato nel rispetto della norme, salvo spingersi a volte fino al limite delle stesse. Un’ affermazione non del tutto vera, quella del rispetto delle norme, visto il numero di cause pendenti sull’istituto di Francoforte. Lo Spiegel nel dossier ha raggruppato i casi più eclatanti di violazioni compiute durante gli anni di Ackermann.

A partire dal 2005 la Deutsche Bank vende negli Usa grandi quantitativi crediti ipotecari sospetti; sempre quell’anno l’istituto agisce a danno di medie imprese e amministrazioni comunali tedesche vendendo loro “Spre adLadderSwaps”, cioè prodotti finanziari del tipo derivati, i quali anziché essere incentivi di risparmio finiscono per bruciare gli stessi; nel 2008 la banca aiuta i cittadini americani a nascondere capitali su conti svizzeri;  a partire dal 2009 la banca fa parte di una sorta di cupola che mette a punto un piano per evadere il fisco per mezzo dei certificati CO2; nel novembre 2010 scambisti della Deutsche Bank riescono a manipolare l’indice azionario sudcoreano attraverso la vendita di un pacchetto di titoli dal valore complessivo di 1,6 miliardi di euro; dal 2011 in poi collaboratori della Deutsche Bank residenti a Mosca e Londra riescono a far trasferire quotidianamente dalla Russia, e senza pezze di appoggio credibili, 10 milioni di rubli; e infine la Deutsche Bank non manca all’appello nemmeno nella manipolazione dell’indice di riferimento Libor. Alla luce di questo elenco, e certo, con il senno di poi, difficile non dare ragione all’economista Simon Johnson, secondo il quale l’operato di Ackermann avrebbe pesato ancora a lungo sulle spalle dell’istituto.

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