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Tutte le dinamiche correlate fra export e demografia

Guido Salerno Aletta, trump

Ci sono Paesi, assai diversi tra loro, che hanno tre aspetti in comune,  che varrebbe la pena analizzare insieme per capire se vi siano correlazioni, e soprattutto se si tratti di modelli di sviluppo sostenibili o meno, sul piano economico, sociale e finanziario. Cina, Germania, Giappone, Corea e, anche se solo da un paio d’anni anche l’Italia, sono Paesi ben noti per i loro saldi esteri strutturalmente in attivo, per via di una crescita export-led. Mostrano, contemporaneamente una dinamica demografica tendenzialmente negativa, con un invecchiamento progressivo che si accompagna ad una diminuzione netta della popolazione. Infine, sono Paesi che tendono a fare continui investimenti finanziari all’estero, anche se con alterne fortune, come dimostrano le vicende che hanno colpito le banche tedesche dopo la crisi americana dei mutui sub-prime, il default della Grecia e quello del sistema spagnolo.

Sembra esserci una correlazione diretta tra entità e durata nel tempo del saldo attivo commerciale e caduta del tasso di crescita della popolazione. Il Giappone, primo in classifica, ha avuto un attivo commerciale sin dagli anni Ottanta, accumulando fino al 2013 un surplus pari all’84,7% del pil. Per quanto riguarda il tasso di crescita annuale della popolazione, il valore è già negativo quest’anno, con un tasso del -0,22%. La crescita demografica nel 1950 era del +1,61%; si era ridotta a valori al di sotto dell’unità per tutti gli anni Sessanta, per poi risalire verso la fine degli anni Settanta. Da allora ha ripreso a calare senza soste, toccando lo zero nel 2007, e continuando a scendere. Il tasso di crescita della popolazione peggiora, portandosi al -0,45% nel 2030 ed al -0,60% nel 2040. A metà secolo arriverebbe addirittura al -0,70%. Tra quest’anno ed il 2050, la popolazione giapponese passerebbe da 123 a 107 milioni, con un saldo negativo di 16 milioni di abitanti (-13%). Le ricadute, in termini di numero di abitazioni da costruire nei prossimi anni, e di valore di quelle esistenti, sono facili da immaginare.

IL CASO DELLA COREA

Il caso della Corea è altrettanto emblematico. Nel periodo che va dal 1980 al 2013, ha accumulato un avanzo sull’estero pari al 44,4% del pil, senza mai conoscere periodi di saldi negativi. Dal punto di vista demografico, quest’anno risulta avere ancora un tasso di crescita positivo, del +0,46%, che però tende a zero nel 2030, arrivando a -0,54% nel 2040. A metà secolo la decrescita sarebbe peggiore di quella giapponese, essendo previsto un tasso negativo dello 0,9%. La diminuzione netta della popolazione sarebbe così di 3 milioni di abitanti (-6%). C’è una altra correlazione: la riduzione della popolazione coreana viene prevista ad una percentuale (-6%) pari alla metà di quella stimata per quella giapponese (-13%), così come la percentuale di saldo attivo cumulato dall’estero dalla Corea nel periodo 1980-2013  è pari alla metà (+44,4%) di quello cumulato dal Giappone (+84,7%). Sembra quasi che tanto più si guarda all’estero per l’attività economica, e si dipende dall’estero, tanto più si restringe l’orizzonte vitale interno.

IL CASO DELLA GERMANIA

Il caso della Germania può essere altrettanto utile per vedere se esistono correlazioni. Nel periodo 1980-2013, ha accumulato un attivo sull’estero pari al 76,8% del pil, di entità simile a quella del Giappone, conoscendo anni di saldi negativi solo nel periodo successivo alla Riunificazione con i Lander orientali. Dal punto di vista demografico, è l’unico Paese che, insieme al Giappone, presenta già oggi un tasso di crescita negativo, con il -0,17%. Si prevede un peggioramento continuo, con il -0,32% nel 2030 e il -0,45% nel 2040. A metà secolo, la popolazione tedesca dovrebbe essere di 71,5 milioni di abitanti, rispetto agli 80 milioni del 2015 ed agli 82 milioni del 2005. Verranno quindi a mancare altri 9,5 milioni di abitanti (-12%): anche con questa percentuale di riduzione della popolazione ci si allinea con il Giappone. Sembra confermata la correlazione ipotizzata nel confronto tra Corea e Giappone: tanto più elevato è il saldo estero, e di conseguenza è elevata la dipendenza economica dalla domanda estera, tanto più si fa irrilevante l’orizzonte interno. Peggio, sembra quasi che questa tendenza si autoalimenti: a mano a mano che i consumi interni scemano, soprattutto quelli delle nuove generazioni che in teoria iniziano da zero, con una nuova casa, un nuovo arredamento e nuove automobili, questo mercato cessa di essere attraente e per vendere ci si rivolge all’estero.

IL CASO DELLA CINA

Il caso della Cina va esaminato con particolare cura, perché la politica del figlio unico ha inciso assai sulle dinamiche demografiche. Ad ogni modo, partendo dal saldo estero, questo è stato attivo a partire dagli anni Novanta. Per omogeneità di confronto, e considerando l’intero periodo che va dal 1980 al 2013, la Cina ha accumulato un attivo pari al 74,5% del pil, un livello ragguagliabile a quello di Giappone e Germania. La crescita cinese è stata trainata esclusivamente dall’export, ed i consumi interni non superano ancora la quarta parte del prodotto. Dal punto di vista demografico, mentre attualmente la dinamica è ancora positiva, con il +0,39%, si prevede che sia negativa con il -0,13% nel 2030 e con il -0,39% nel 2040. A metà secolo, gli abitanti della Cina dovrebbero essere 1 miliardo e 301 milioni, rispetto agli attuali 1 miliardo e 367 milioni ed al picco di 1 miliardo e 407 milioni previsti nel 2025. Questo significa che tra il 2025 ed il 2050 la popolazione cinese dovrebbe diminuire di ben 106 milioni di abitanti (-7,5%). Ancora, si prevede nel 2050 la popolazione cinese torni ad essere uguale a quella del 2005, registrandosi dapprima una crescita e poi una identica decrescita di 102 milioni di persone in meno di mezzo secolo. L’accumulo del saldo estero cinese si è realizzato a partire da un periodo di venti anni successivo rispetto a quello in cui è iniziato in  Giappone, Corea e Germania, e le analoghe conseguenze sul piano demografico, che hanno motivazioni culturali, personali e sociali, profonda, si sono manifestate più tardi. Molta popolazione cinese, che vive nelle campagne, vorrebbe avere assai più di un figlio. Chi vive in città e lavora in fabbrica non la pensa più così.

IL CASO DELL’ITALIA

L’Italia ha una storia economica assai variegata, essendo stata favorita nel commercio con l’estero dalla svalutazione del 1992 e poi penalizzata dall’ingresso nell’euro. Nel periodo 1980-2013 ha accumulato un disavanzo nelle partite correnti pari al 25,1% del pil. Negli ultimi tre anni, dopo la forte riduzione del potere di acquisto delle famiglie che ha avuto un effetto molto forte sulle importazioni, il saldo estero è tornato  positivo: +1,9% nel 2014, +2,2% nel 2015 e probabilmente un altro +2,2% anche quest’anno. Dal punto di vista demografico, il tasso di crescita è attualmente ancora positivo (+0,18%), ma tenderà allo zero nel 2030, per arrivare al -0,10% nel 2040. Siamo ad un livello di stazionarietà della popolazione, anche con l’orizzonte a metà secolo. In modo assai empirico, sembra confermata la correlazione su cui ci si è soffermati: dal 1980, in Italia il mercato interno è stato il traino dell’economia, con un saldo delle importazioni superiori all’export. Siamo stati, per tutti, un grande mercato in cui vendere con profitto beni e servizi. Dopo la crisi lo siamo assai meno, e guardiamo all’estero. Quando la prosperità dipende solo dal mercato estero, le preoccupazioni per il futuro aumentano, e le culle si svuotano. L’Italia si pone come caso al limite tra i due paradigmi.

FRANCIA, REGNO UNITO E STATI UNITI

I dati di Francia, Regno Unito e Stati Uniti, che pure indicano una tendenziale riduzione del tasso di crescita della popolazione, sono però assai distanti da quelli previsti per Corea, Giappone, Germania e Cina. Le bilance dei pagamenti di questi tre Paesi, che figurano tra le prime economie mondiali, sono perennemente in deficit: nel periodo 1980-2013, gli Usa hanno accumulato un passivo pari all’88,3% del pil, il Regno Unito un rosso pari al 51,4%. Il passivo francese si conclude con un -1,5%, che media attivi consistenti (+11,9% nel periodo 1990-2000) e recentemente passivi cocenti  (-8,2% nel periodo 2009-2013).

Il passivo commerciale riempie le culle: gli Usa guidano oggi la classifica per la maggior crescita demografica (+0,80%) seguiti dal Regno Unito (+0,52%) e dalla Francia (+0,38%). Sono società focalizzate sul consumo, piuttosto che sull’ossessione della produzione. Si indebitano, ma il loro equilibrio demografico è meno pericolante. A metà secolo, negli Usa ci dovrebbero essere 393 milioni di abitanti, rispetto ai 321 milioni attuali, con un incremento di 72 milioni rispetto ad oggi(+22%). Sembra quasi che la crescita della popolazione americana vada a colmare quasi completamente la decrescita di quella cinese. Per quanto riguarda la Gran Bretagna, la popolazione dovrebbe passare dai 64 milioni attuali ai 71 del 2050, con un incremento netto di 7 milioni di abitanti (+11%). Curiosamente, anche in questo caso, il disavanzo estero della Gran Bretagna è esattamente pari alla metà di quello statunitense, La Francia, infine, dovrebbe passare dai 66,5 milioni di oggi a 70 milioni di metà secolo, con un incremento (+5,2%). Anche stavolta, in modo ancora casuale, si conferma la correlazione tra saldi esteri ed incremento del tasso di natalità: tanto più i saldi del commercio estero sono negativi, tanto più il mercato interno è dinamico, e la popolazione cresce.

È come se il mondo si fosse diviso in due: da una parte, c’è chi lavora e si dispera cercando di vendere all’estero, si danna per investire oltre frontiera in modo sicuro quanto ha accumulato con l’export, ed intanto contempla culle sempre più vuote ed equilibri demografici sempre più precari; dall’altra, c’è chi consuma senza preoccupazioni, vive a debito cercando di rifilarlo all’estero, cresce dal punto di vista demografico ed ha minori preoccupazioni per l’invecchiamento della popolazione.

Va a finire che dovremmo riscrivere completamente una canzone che andava tanto di moda anni fa, cominciando dal titolo: “È chi lavora, che non fa l’amore!”


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