Un solerte commesso, all’ingresso, avverte, come in certe opere documentarie: le immagini sono scioccanti, potrebbero turbare la vostra sensibilità. Chi varca la soglia ne è consapevole: in una stanza bianca come un reparto d’ospedale, nel complesso del Maxxi di Roma, c’è l’orrore: ventisette pannelli fotografici (50 x 70 cm) che raccontano l’orrore. Quello che manca, a livello collettivo, nelle opinioni pubbliche occidentali, è un’altra consapevolezza: la contabilità della guerra in Siria è tanto enorme quanto incerta – le stime variano dai 250.000 ai 500.000 morti – ma la stragrande maggioranza delle vittime civili è sulla coscienza di Assad e dei suoi alleati.
Aiuterebbe molto, nel formare questa consapevolezza, la visione della mostra fotografica itinerante “Nome in codice. Caesar. Detenuti siriani vittime di tortura”, che arriva finalmente a Roma, dal 5 al 9 ottobre, nel museo di Via Reni, promossa dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana assieme ad Amnesty International, UniMed, FOCSIV, Articolo 21, Un ponte per… e Cestim.
Dietro gli scatti, infatti, c’è un ex insider del regime. Il suo nome in codice è “Caesar”, per proteggerne l’incolumità. Caesar lavorava per la polizia militare di Assad. Era un fotografo, il suo lavoro consisteva nel riprendere le scene del crimine, con le relative vittime: incidenti stradali, suicidi, annegamenti, incendi. Nel 2011, però, i protagonisti dei suoi scatti cambiano. Il regime è nel mirino delle proteste di piazza, sull’onda delle rivolte arabe che hanno già costretto il tunisino Ben Ali alla fuga e l’egiziano Mubarak alle dimissioni. Assad reagisce in un solo modo, usando il bastone. Attivisti e dimostranti vengono arrestati, torturati, uccisi in prigioni militari trasformate in camere della morte. Il governo, come i vecchi regime comunisti dell’Europa orientale, vuole documentare tutto e “Caesar” deve fotografare queste vittime, in particolare quelle dell’ospedale militare 601 a Mezze, Damasco.
Naturalmente le morti vengono archiviate sempre con cause naturali, attacchi cardiaci o problemi respiratori. Eppure lo zelo dei funzionari e l’ossessione documentaria del regime si ritorcono contro Assad. Nel corso del tempo, pazientemente, tra il 2011 e il 2013 “Caesar” copia ed archivia le immagini su alcune chiavette Usb, fornite dall’amico Sami. Poi, nell’agosto 2013 defeziona e, col concorso di Sami e del Syrian National Movement, riesce a portare all’estero gli scatti. Le foto, quasi 55.000, 28.000 delle quali relative a cadaveri, diventano la prova dei massacri perpetrati dal “macellaio di Damasco”. Un’autorevole commissione internazionale, formata da giudici ed esperti forensi, ne conferma l’autenticità. Gli scatti vengono esposti in tutto il mondo: al Palazzo di Vetro di New York, al Congresso di Washington, alla facoltà di Legge dell’Università di Harvard, al Parlamento Europeo di Strasburgo, alla Camere dei Comuni di Londra. Eppure Assad è ancora in lì, tenuto in piedi dagli alleati russi ed iraniani, ed impegnato adesso nell’assedio di Aleppo.
Le foto arrivano anche all’Holocaust Memorial Museum di Washington, il luogo più adatto ad ospitarle, probabilmente. Perché i volti pixelati delle vittime, coi loro corpi gracili e martoriati, sono quanto di più vicino ci sia al catalogo visivo della Shoah. A tal punto che il direttore del museo washingtoniano, Cameron Hudson, ha paragonato “Caesar” a Jan Karski, il partigiano polacco che, dopo essere uscito indenne dal ghetto di Varsavia e dal lager di Bełzec, aveva denunciato al mondo, inascoltato, i crimini nazisti.
Le torture e le bruciature dei tanti Giulio Regeni ritratti da “Caesar”, i corpi senza vita sdraiati sul pavimento, come in una crocefissione di massa, sono difficilmente sostenibili allo sguardo. I cadaveri sono catalogati secondo la sezione dell’intelligence che ha proceduto all’arresto: 215, 216, 227, 235, 251. “Prima della rivolta”, ha raccontato il fotografo al Guardian, “il regime torturava i prigionieri per ottenere informazioni. Adesso torturava per ucciderli. Ho visto bruciature di candele e persino di una stufa, ho visto occhi cavati e denti spaccati, segni di frustrate e di ferite piene di pus, come se non fossero state curate e si fossero infettate”.
Human Rights Watch ha eseguito un’analisi delle immagini, pubblicando poi un dettagliato rapporto (in inglese, francese, spagnolo, arabo, tedesco, giapponese, cinese e russo) dal titolo: “Se i morti potessero parlare – Uccisioni e torture di massa nelle strutture di detenzione in Siria”. L’organizzazione umanitaria si è concentrata su 28.707 fotografie, che mostrano almeno 6.786 persone morte in carcere o dopo il trasferimento in un ospedale militare. “Le foto rimanenti” – scrive Hrw – “sono di corpi identificati come appartenenti a soldati governativi, ad altri combattenti armati o a civili uccisi in attacchi, esplosioni o attentati”. Alcuni siti di contro-informazione hanno messo in discussione l’attendibilità di Caesar e soprattutto la campagna mediatica – politicamente interessata, dicono – nata dalla pubblicazione delle foto in Occidente.
Comunque il paradosso di questa storia è uno Stato che documenta in maniera metodica il proprio Terrore, fornendone così le prove (Assad, ovviamente, le ha bollate come false, perché le torture non sono attribuibili al regime e le foto sono state autenticate grazie ai fondi del nemico Qatar). In Francia la giornalista Garance Le Caisne ha raccolto il racconto di “Caesar” in un libro – “Opèration Cèsar” – uscito lo scorso ottobre (pubblicato in Italia con il titolo “La macchina della morte”) e la magistratura francese ha avviato un’inchiesta nei confronti del regime di Assad per crimini contro l’umanità. Il 18 agosto di quest’anno Amnesty International ha pubblicato un rapporto in cui parla di 17.723 siriani morti in carcere dal marzo 2011, inizio delle proteste. Un’altra ong, The Syrian Network for Human Rights, ha parlato di 215.000 persone detenute dall’avvio della guerra civile. Di metà di loro non si ha notizia (Bashar ha affinato i metodi del padre Hafez: tra fine anni Settanta ed inizio Ottanta più di 17.000 prigionieri sparirono dalle carceri siriane).
Il regime non ha certo il monopolio della violenze in Siria, e lo stesso Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu ha ricordato in un rapporto del febbraio 2016 i crimini commessi dallo Stato Islamico e da Jabhat al Nusra (l’ex branca di Al Qaeda in Siria, poi ribattezzata Jabhat Fatah al Sham, dopo la separazione consensuale dalla casa madre). Ma continua essere il principale latore di morte e minaccia di riconquistare il Paese “ palmo a palmo”. La matassa siriana resta irrisolta e neppure le foto di Caesar hanno spinto la comunità internazionale ad intervenire, sulla base della responsibility to protect. Settant’anni dopo, c’è un altro Olocausto, per quanto numericamente inferiore, che suscita un misto di indifferenza ed impotenza. Eppure, come ricorda Margit Meissner, sopravvissuta alla Shoah, “la distruzione degli ebrei in Europa era segreta e le poche informazioni vennero respinte perché la gassificazione di civili era ritenuta improbabile. La crisi umanitaria in Siria, invece, non è un segreto”. Per la Meissner il parallelo è immediato: “Nei rifugiati che fuggono vedo lo stesso sguardo disperato che ho visto in chi fuggiva dal regime nazista. Quando i fatti della Seconda Guerra Mondiale sono stati conosciuti, ho creduto che una cosa del genere non sarebbe mai potuta accadere di nuovo. Che pensiero ingenuo”.