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Il PD e il suo futuro

La Direzione Nazionale del Partito Democratico del 10.10.2016 è apparsa sui media come la solita discussione rituale interna al PD e come l’ennesima occasione di scontro tra correnti, correntine e personalismi vari, dal vertice in giù. Invece, non è così. O non solo.

Ho cercato di riflettere molto attentamente sui vari interventi che ho ascoltato in diretta live, soprattutto quelli di Matteo Renzi e dei vari esponenti delle minoranze del PD. Sì, perché di minoranze ce ne son diverse: Sinistra Riformista di Roberto Speranza e Pierluigi BersaniSinistraDem con Gianni CuperloReteDem, il cui portavoce nazionale è il Senatore Sergio Lo Giudice.

Questo è fondamentale da ricordare, per far chiarezza, prima di tutto, rispetto a quanto scrivono i giornali e rispetto a quanto viene detto ai telegiornali o alle radio. Non c’è una sola minoranza PD e Roberto Speranza non né il leader. Ci sono varie anime che compongono questo spazio, che cercano, non senza fatica, di trovare un modus operandi comune. C’è uno sforzo importante che va in questa direzione e le varie iniziative congiunte che son state realizzate nell’ultimo anno ne sono una testimonianza: dall’assemblea congiunta del dicembre 2015 a Roma all’evento del 7 ottobre sull’economia tenutosi al Nazareno sui temi sociali ed economici.

Fatta eccezione per l’intervento sopra le righe di Giachetti, condito anche da qualche sfottò e brutte espressioni, la Direzione si è svolta con molto rispetto e pacatezza. Un momento di discussione interna ad un partito, reso pubblico, grazie a Internet. Se questo sia un aspetto positivo della faccenda, se ne discuterà un’altra volta. Fatto sta che si è potuto ascoltare e vedere un dibattito politico che pesa e peserà sempre di più sul futuro del Partito Democratico e che vedrà nel day after del Referendum Costituzionale uno spartiacque.

Il PD, così come lo abbiamo imparato a conoscere dalla sua fondazione ad oggi, è cambiato, è indubbio, e sta ancora cambiando. Mi sembra evidente che esistono forti distanze tra alcune componenti del partito e la dirigenza nazionale. Non meno della distanza che esiste tra il parito nel suo insieme e parti sempre più importanti della sua base di iscritte/i e di elettrici ed elettori. Le elezioni amministrative di questi ultimi anni sono la prova concreta di questo malessere. Ignorarlo, minimizzarlo, o provare a scaricare le responsabilità al di fuori del partito è un errore di una superficialità assurda. Ma tant’è.

Torniamo però alla sostanza di questo articolo: il futuro del PD. A molti interesserà relativamente poco. E sbagliano. Il PD è il più grande partito italiano di centro-sinistra. Il PD è il più grande gruppo del Partito Socialista Europeo (PSE). Il PD è il partito, in Italia, con il più grande numero di iscritte ed iscritti, malgrado un forte calo negli ultimi due anni, dovuto a questioni assai differenti. Non basta, anche in questo caso, dire che è un trend generale che colpisce tutti i grandi partiti in Europa. Il PD è quello che in un lasso di tempo molto ristretto ha perso più di tutti gli altri, ingenti quantità di tesserate/i. Ma anche la discussione su partito liquido/solido, la rimandiamo ad un’altra occasione.

Non credo di dire niente di nuovo o di sconvolgente nell’affermare che questa legislatura nasce con un peccato originale che si porta dietro inesorabilmente tutt’ora: una non vittoria del 2013 ha visto la formazione di un Parlamento altamente frammentato, diviso, caotico e per certi versi sconcertante. Maggioranze ballerine, create artificiamente in base all’occorrenza. Assenza totale di una progettualità politica, di accordi chiari e messi nero su bianco, un po’ come accade in Germania quando, in un sistema proporzionale un partito del 42% come la CDU non riesce a formare un governo da solo dovendo arrivare a patti con la SPD, ma mettendo in chiaro i punti di accordo per la formazione e tenuta della coalizione. Era meglio fare una legge elettorale e tornare alle urne? Sì, secondo me era la scelta migliore. Ma anche questo è ormai il passato. Oggi, dopo anni di dibattiti e discussioni, con questo sistema e questo Parlamento, Renzi e il PD hanno portato a casa una serie di riforme importanti e determinanti per il futuro del paese: dal mercato del lavoro alla scuola, dalla pubblica amministrazione alla legge elettorale, dalla legge sulle unioni civili al dopo di noi passando per la riforma costituzionale. Il vero e proprio nodo politico.

Si è sentito parlare di “combinato disposto”. Altro non è che il binomio tra riforma della legge elettorale (Italicum) e riforma della Costituzione. Per molti è un binomio negativo e dannoso per il Paese. Non entrerò nel merito delle discussioni che tutte e tutti conosciamo, che sentiamo incessantemente da mesi e mesi. Ricordo solo che diverse elette e diversi eletti del PD hanno votato contro o l’uno o l’altro o contro entrambi durante le discussioni parlamentari. E questo significa: assenza di visione comune e di un accordo politico. E questo tipo di dinamiche non può essere ignorato. Per questo ho apprezzato l’intervento di Gianni Cuperlo, che ha spiegato molto bene i motivi che lo hanno spinto a votare in Parlamento la riforma e anche la posta che è però in gioco con la legge elettorale. Così hanno fatto altri esponenti della minoranza come Sandra Zampa.

I tempi son cambiati si dice. I partiti sono in disfacimento, serve rapidità nelle scelte e certezza della vittoria di questo o quel partito. Sarà anche vero, ma non mi convincono del tutto queste affermazioni. I partiti non sono in disfacimento, sono in radicale trasformazione. Questo significa che bisogna decidere che tipo di partito si vuol avere e che tipo di sistema democratico sostenere. Esistono regole basilari della democrazia: per esempio che la maggioranza decide. Ma il presupposto alla base di questo assunto è che ci sia stata una discussione interna prima di tutto. Serve da parte della maggioranza e da parte della minoranza la volontà politica di accordarsi. La forma, allora, non è un aspetto secondario. Il come si fanno le cose conta eccome.

C’è anche da fare una considerazione in più: si possono avere tutte le riforme del mondo, i sistemi migliori sulla carta, ma quello che fa la differenza oggi e domani, sarà sempre e solo la volontà politica di fare e fare bene.Il tutto si muove, indissolubilmente, con la qualità della classe dirigente, che fatte salve alcune significative eccezioni, è assai deprimente. E per me i partiti possono (devono?) giocare un ruolo nella selezione della classe dirigente, attraverso una sinergia totale con il proprio corpo politico.

C’è indubbiamente una eccessiva dose di arroganza da parte di una dirigenza che, non a torto, dice che è ora di sbrigarsi e di arrivare a fare le cose che servono. E questa arroganza si traduce non in una discussione dialettica, ma in un mero scontro tra tifoserie. E così, il dibattito politico si impoverisce e imbarbarisce senza sosta. Fino a quando la propaganda diventa autodistruttiva: penso ai casi di Roma e alle modalità di comunicazione di questi anni con l’assurda, noiosa, stanca, offensiva retorica dei gufi e delle paludi, con l’invito “se non va bene, Ciao!” e infatti un pezzo ha lasciato il partito. Avrà avuto risultati elettorali irrilevanti o poco determinanti, ma è stato un danno, uno strappo nel tessuto di questa comunità. Arriviamo poi ai cartelloni dei Comitati per il Sì in cui si invita a votare per tagliare il numero dei politici. Mero populismo, antipolitica. Un linguaggio, lo ho scritto e ripeto, grillino. Eppure si doveva essere altro da questo.

Non mancano poi i vari Rondolino, che si accaniscono senza sosta contro chiunque si opponga alla linea generale. Con la brutta arte del dileggio e dello spregio verso avversari politici interni o esterni, vissuti non come interlocutori o avversarsi, appunto, ma come nemici. Mi ricorda un po’ l’approccio di Carl Schmidt il cui retaggio storico non sto qua a ricordare. Così, non va. Provo una profonda pena per il livello sciatto e becero della discussione. E provo paura rispetto a quello che ci troveremo ad avere tra le mani domani, dopo mesi e mesi di campagne di questo tipo.

Allora, e concludo, abbiamo davanti agli occhi un fatto: il PD non è più quello che pensavamo e il 5 dicembre, il giorno dopo il Referendum, non sarà più come prima. Che vinca il sì o che vinca il no, la mutazione è già avvenuta. Bisogna capire, però, che percorso seguirà il cambiamento. Scrissi tempo fa su L’Unità un appello, in cui spiegavo che tenere insieme il partito era l’obiettivo politico principale. Lo penso ancora, fortemente. Non si tratta di individuare colpe e puntare il dito, perché c’è della verità da una parte e dall’altra, così come c’è del torto.

Una discussione sana, per quanto dura e aspra, all’interno del partito era per me ed è la soluzione unica di questo nodo. Una discussione fatta internamente su proposte e progetti, cioè che parte dal basso (non deve essere necessariamente sempre così, ma su temi cruciali per l’identità e tenuta del partito… Sì) avrebbe dato forza e legittimità anche all’azione del Governo, che necessariamente non può essere solo una cosa relativa al partito. Perché ci sono altre forze coinvolte. Ma la base di discussione era ed è da elaborare nel partito stesso. Lì sta il senso di una comunità politica capace di essere motore del cambiamento.

La discussione sul Referendum, purtroppo, è uscita completamente dai binari. Ormai è evidente che non si discute nel merito, da nessuna parte. E a questo gioco meglio non prestarsi. Ci sono aspetti positivi che vanno riconosciuti, ci sono aspetti critici che vanno superati, possibilmente prima del 5 di dicembre. Ci sono proposte depositate da mesi e mesi nelle commissioni che miravano ad arrivare al referendum in un clima diverso, disteso e pacificato. Il PD poteva essere, insieme, compatto, ma oggi vediamo che non è così. C’è una crisi di fiducia, che è prima di tutto interna. E naturalmente si riflette all’esterno con tutte le conseguenze del caso.

Non è la fine del mondo. Si tratta di una constatazione di quanto accade e un’ipotesi su quanto accadrà. Credo però che l’impegno di molte e di molti di noi mantenga il suo valore, anzi, credo che oggi più che mai sia indispensabile e necessario per poter tornare a immaginare un centro sinistra ampio, plurale, ma coeso.


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