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Cosa si dice in Germania delle tribolazioni di Deutsche Bank

HILMAR KOPPER_Imagoeconomica

C’era una volta la Deutsche Bank, orgoglio nazionale e prova tangibile della solidità e irreprensibilità teutonica. C’era una volta un istituto dalla gloriosa storia – cominciata nel 1870 – che era diventato uno dei pilastri portanti della Germania, della sua economia. E non c’era paesino, per sperduto che fosse, senza una sua filiale. La banca era motore dell’economia, ma al tempo stesso svolgeva (secondo etica luterana) attraverso i suoi dirigenti una funzione sociale: i vertici erano stimati per la loro rettitudine, quella rettitudine che poi pretendevano dai loro dipendenti.

Una reputazione costruita nell’arco di più secoli, e spazzata via in poco più di vent’anni. “Die Deutsche Bank ist kaputt”, scrive ora il settimanale Spiegel, e non c’è bisogno di traduzione. Un giudizio che appare senza possibilità di appello: “Può darsi – si legge  – che ce la faccia ancora una volta a divincolarsi dalle 7800 pendenze giudiziarie che gli gravano addosso; può darsi che riesca ancora una volta a trovare investitori e capitali sufficienti; e non è da escludere che in caso estremo possa addirittura essere salvato dallo stato, cioè con i soldi dei contribuenti. Il che non toglie che la sua reputazione è a pezzi, kaputt, per sempre compromessa”.

Ora, stando ai dati comunicati ieri dal CEO John Cryan, la situazione è meno catastrofica di quello che si è pensato fino all’altro ieri. E invece al posto dei 950 milioni di perdite che avevano previsto gli analisti, nel terzo trimestre la banca ha registrato al netto delle tasse un guadagno di 278 milioni di euro.

Il momento resta comunque delicato, il futuro pieno di nubi. E così lo Spiegel ha realizzato un consistente dossier, nel quale ripercorre i quasi 150 anni della banca e cerca al tempo stesso di dare una risposta alla domanda su come sia stato possibile trasformare una banca costruita sulla solidità teutonica –noiosa certo ma rassicurante –  in un global player del genere più azzardato e privo di scrupoli.

Al dossier hanno lavorato tre giornalisti che da sempre seguono le vicende della Deutsche Bank. Ulrich Fichtner, Hauke Goos e Martin Hesse hanno intervistato ex vertici, membri del management passato e presente, consultato documenti, archivi. Una mole ingente di materiale che si può dividere in tre filoni: il primo si concentra sui sogni di vanagloria, la voglia di “mondo/mondanità” che hanno animato i grandi capi. Il secondo filone prende in esame i dati economici della banca nell’ultimo ventennio e poco più, la loro composizione. Il terzo punta il faro su Josef Ackermann il boss dei boss, il “re sole” come qualcuno lo chiamava, della Deutsche Bank.

PIÙ WALL STREET A MAGONZA 

Come è stato dunque possibile che la più grande banca d’affari tedesca, guidata e amministrata fino a un certo punto con rigore prussiano, si sia trasformata in quello che l’Economist ha definito un gigantesco hedge found?

Correvano i primi anni Novanta, ricorda lo Spiegel. La caduta del Muro, la globalizzazione, l’internazionalizzazione aveva colto come una febbre anche i banchieri tedeschi. Il neoliberismo di Reagan e Thatcher aveva fatto proseliti anche in Germania.

Improvvisamente il modello della banca d’affari tradizionale appariva vecchio, polveroso, superato. Quasi ci si vergognava delle filiali a Oldenburg, Wismar, Mannheim e Augsburg, ricorda lo Spiegel. Apparivano di un provincialismo imbarazzante. Era arrivato il momento di cambiare, peccato però che per giocare nella Serie A della grande finanza, la Germania non disponeva ancora del personale. Dalle università tedesche non erano ancora usciti i brokers moderni, i financial advisors e tutti gli altri. A dire il vero, nemmeno l’inglese era parlato da tutti i componenti del comitato direttivo.  D’altro canto fino a quel momento gli affari la Deutsche Bank li aveva fatti con i finanziamenti all’industria, al commercio, e non sul prezzo dei titoli, sulla quotazione in Borsa, sulle speculazioni finanziarie.

Ancora nel 1988 con Wilhelm Christians, classe 1922, signore discreto e grande raffinatezza, alla guida, la Deutsche Bank possedeva circa un terzo delle azioni Daimler e aveva suoi rappresentanti in 400 consigli di sorveglianza. “Era uno stato nello stato. Senza lo stesso nulla si muoveva, contro lo stesso nulla si poteva” riassume il settimanale.

1994 L’ANNO IN CUI TUTTO CAMBIÒ

La svolta (e con il senno di poi, l’inizio della fine dei tempi di gloria) arrivò con Hilmar Kopper (nella foto) alla guida dell’istituto. Nel giugno del 1994,  Kopper aveva riunito uno stretto gruppo di fedelissimi a Madrid. Lì si era discusso e poi deciso di trasformare la Deutsche Bank in una Investment Bank. E visto che in patria non si disponeva ancora di qualcuno capace di avviare e accompagnare questo mutamento, si decise di ingaggiare Edson Mitchell. Mitchell aveva fama di essere un genio nel suo campo, ma anche di avere un carattere tosto, impietoso. E proprio questo gli ostruì il passo, il salto decisivo in Merill Lynch. Una delusione cocente che spinge Mitchell ad accettare immediatamente l’offerta della Deutsche Bank di gettare a Londra le fondamenta del nuovo business. I primi anni non sono coronati da vero successo, e quando questo infine arriva, siamo nel 2000, Mitchell muore in un incidente aereo. Per quanto profondo lo sgomento, il successore è già trovato: Anshu Jain, allievo prediletto di Mitchell.

Nel frattempo anche nella sede di Francoforte c’erano stati cambi ai vertici. A Hilmar Kopper era succeduto Rolf Breuer, che avrebbe a sua volta ceduto il timone al banchiere svizzero Josef Ackermann. È il 2002 e Ackermann prende in mano il timone della banca, proprio nell’anno più nero per il sistema bancario, dalla fine della guerra. L’economia tedesca assiste quasi paralizzata aal susseguirsi di fallimenti, nel 2002 sono 37700. A un tasso di crescita che a malapena tocca l’1 per cento. L’allora cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder è così preoccupato da convocare il gotha dell’economia e del sistema bancario. È in quell’occasine che Ackermann suggerisce la creazione di un una società che raccolga i crediti deteriorati. Un’idea che però non piace affatto, qualcuno teme che possa trasformarsi in una selffulfilling prophecy.

Una situazione economica che mina ovviamente anche la solidità del sistema bancario. E infatti a livello internazionale colossi come Goldman Sachs e Merrill Lynch riducono, a partire dal terzo semestre del 2002, i proventi dei loro collaboratori del 10 per cento. Non così i vertici della Deutsche Bank: nonostante i ricavi del investment banking erano scesi del 15 per cento, le remunerazioni erano aumentate. “Secondo le stime di allora, la Deutsche aveva aggiunto un bel 6 per cento sugli stipendi e i bonus dei suoi collaboratori”, scrive lo Spiegel.

Ad Ackermann seguirà Anshu Jain, il capo dell’investment banking a Londra, il boss anglo indiano che non si era mai nemmeno posto il problema di imparare il tedesco.

IL FUTURO È UN’IPOTESI 

Oggi il futuro della Deutsche Bank è una grande incognita. Basta tener presente che durante l’ultima assemblea generale degli azionisti tenutasi in maggio, le perdite ammontavano 6,8 miliardi di euro. A traghettare l’istituto in acque più tranquille tocca al nuovo capo, il britannico John Cryan. Un anti Ackermann doc. Uno che elenca puntigliosamente ai suoi collaboratori tutto quello che non va. Secondo i commentatori da una parte una strategia salutare che mette fine a decenni di illusioni (e illusionismi). Dall’altra un’operazione verità che dovrebbe essere di breve durata, se si vuole evitare che l’autocritica si trasformi in un boomerang che mina ulteriormente l’immagine dell’istituto. Dovrebbe infatti far riflettere il dato che da quando Cryan è arrivato alla Deutsche Bank il titolo ha perso il 50 per cento del suo valore.



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