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La riforma costituzionale e i pericoli per la finanza pubblica

di Flavio Felice e Fabio G. Angelini

(articolo pubblicato su http://www.logos-rivista.it)

La Costituzione è il fondamento della Repubblica. Se cade dal cuore del popolo, se non è rispettata dalle autorità politiche, se non è difesa dal governo e dal Parlamento, se è manomessa dai partiti verrà a mancare il terreno sodo sul quale sono fabbricate le nostre istituzioni e ancorate le nostre libertà (Luigi Sturzo).

Le ragioni del SI sembrano non cogliere, né tanto meno offrire una risposta credibile a quel nodo istituzionale che – (non a caso) a partire dagli anni di esplosione della spesa pubblica – non solo blocca il Paese, ma lo condanna ad un inesorabile declino economico e sociale nel contesto dell’UE. In questo senso, proprio il Senato, simbolo di questa riforma mal scritta, sembra tristemente svelare come l’intento del legislatore si riduca esclusivamente al tentativo di fornire un ancoraggio costituzionale ad una legge elettorale pensata per una certa maggioranza politica, senza alcuna consapevolezza sulle implicazioni istituzionali che deriverebbero da un simile assetto di poteri.

Ancora di più, stupisce l’assenza di uno sforzo teso a rendere consapevoli gli elettori del fatto che discutere di assetti istituzionali significhi, in ultima analisi, parlare delle dinamiche della spesa pubblica e quindi, necessariamente, della tutela dei diritti fondamentali della persona. Proprio a partire dagli assetti istituzionali, infatti, si innescano quelle dinamiche di raccolta del consenso che storicamente hanno determinato l’indirizzo della politica economica, sociale e finanche monetaria del nostro Paese.

In un contesto così delicato, nel quale i diritti e le nostre libertà risultano sempre più esposte a spinte tese ad un loro ridimensionamento, sarebbe stato auspicabile indirizzare lo slancio riformatore manifestato da questo Parlamento verso il superamento di quelle anomalie istituzionali che hanno prodotto solo l’espansione della spesa pubblica e che oggi, se non risolte, determineranno la definitiva insostenibilità del nostro sistema di tutela dei diritti fondamentali. Il sistema istituzionale attuale ha infatti prodotto assetti di potere che si sono consolidati ed alimentati grazie a politiche di crescita abnormi e malsane del nostro welfare, a loro volta fondate su politiche monetarie inflazionistiche e sul deficit di bilancio. Si tratta dunque di valutare se la riforma sia davvero in grado di risolvere tali anomalie, ovvero, di aggravarle definitivamente condannandoci alla fine inesorabile del nostro sistema di protezione dei diritti sociali.

Si badi, la crisi fiscale dello Stato e l’evoluzione verso forme di sovranità sempre più condivisa ed interdipendente tra gli Stati, le organizzazioni internazionali e gli stessi mercati, ci pongono di fronte alla necessità di ripensare l’assetto istituzionale in funzione della difesa delle libertà e dei diritti sociali, e non a discapito di essi. La portata dell’appuntamento referendario va, perciò, ben oltre le sorti del Governo Renzi, interessando in definitiva la sostenibilità delle nostre finanze pubbliche ed il futuro del nostro sistema di welfare.

È proprio qui che sta il principale punto debole della riforma. Ovvero, nella sua incapacità di introdurre nel nostro ordinamento quei sicuri ancoraggi costituzionali al modello del potere governante (e ai suoi contropoteri) che si è timidamente affermato nella seconda repubblica e che ricorre ormai in tutti gli ordinamenti occidentali, dagli Stati Uniti alla Germania. Essa, in maniera del tutto opposta, in nome della governabilità (che è cosa ben diversa dal potere governante a cui si alludeva prima), si concentra invece sul superamento del bicameralismo perfetto, senza però preoccuparsi di introdurre quei necessari contropoteri in assenza dei quali si determina inevitabilmente l’oppressione e lo sfruttamento della maggioranza sulla minoranza, con inevitabili conseguenze sul fronte della finanza pubblica. Una deriva istituzionale pericolosa sia alla luce del testo della riforma che, a maggior ragione, del suo combinato disposto con l’Italicum.

Una tale deriva istituzionale è stata ben argomentata da Francesco Forte in un contributo pubblicato dal Centro Studi Tocqueville-Acton, intitolato Un’analisi economica della riforma costituzionale, dove, rifacendosi alla teoria economica della democrazia di Buchanan e Tullock, l’economista spiega le ragioni per cui il progetto di riforma costituzionale Renzi-Boschi debba ritenersi “inaccettabile e profondamente anti democratico”.

La teoria richiamata da Forte ha un’importanza centrale nella teoria del “calcolo del consenso” in regime democratico in quanto, affinché non ci sia uno sfruttamento della maggioranza sulla minoranza e una oppressione di questa da parte di quella, in linea di principio, occorrerebbe adottare la regola dell’unanimità. Senonché, la regola dell’unanimità, ottimale in teoria, non lo sarebbe in pratica in quanto, per raggiungere il consenso unanime bisognerebbe fare molte contrattazioni fra i votanti e ciò può dar luogo a tempi decisionali troppo lunghi e a soluzioni di compromesso confuse, che comportano inefficienza. D’altro canto, però, la regola della maggioranza semplice (il 50%+1) risolve abbastanza bene il problema dei costi delle decisioni, ma comporta il rischio che la maggioranza sfrutti la minoranza e la opprima. Motivo per cui, risulta anch’essa inaccettabile.

Buchanan e Tullock suggeriscono una regola di maggioranza qualificata. Essa, ci ricorda Forte, riduce la possibilità di sfruttamento della minoranza più che in proporzione, perché implica di individuare carichi fiscali e oneri patrimoniali molto selettivi, il che non è facile, considerando sia i divieti che, generalmente, le costituzioni stabiliscono alle discriminazioni dei cittadini di fronte alla legge e sia il fatto che i tributi molto selettivi se hanno aliquote troppo alte finiscono a dare meno gettito. D’altra parte però, il costo delle decisioni dipende non solo dalla regola di decisione, ma anche dal numero di membri dell’organo che discute e delibera.

La maggioranza qualificata, necessaria per evitare lo sfruttamento della maggioranza sulla minoranza, può però essere ottenuta anche mediante l’adozione di delibere congiunte di più comitati o assemblee composte in modo diverso. Come ci ricorda Forte, un metodo per attuare la regola della maggioranza qualificata, senza aumentare troppo il costo delle decisioni è proprio quello del disprezzato bicameralismo, quando la seconda Camera, cioè il Senato, la cosiddetta “Camera alta”, è eletta con criteri diversi dalla prima, è molto meno numerosa della Camera, decide solo sulle questioni più importanti ed è composta diversamente dalla Camera dei deputati o “Camera bassa”.

Un altro metodo è poi quello monocamerale o bicamerale, bilanciato dall’elezione diretta del capo dello Stato, con forti poteri decisionali. Per evitare l’oppressione e lo sfruttamento della maggioranza sulla minoranza – conclude Forte – con il sistema bicamerale, non occorre che il Senato, composto in modo diverso dalla Camera, voti tutte le leggi. Basta che deliberi solo su quelle che riguardano il bilancio pubblico o comportano variazioni nel bilancio in precedenza approvato. Esse, infatti, possono dare luogo a sfruttamento della minoranza, perché possono aumentare la pressione fiscale o il deficit pubblico. Il Senato dovrebbe essere, altresì, competente per le leggi che possono rappresentare un pericolo per la libertà e la sicurezza nazionale o che comportano modifiche della costituzione.

Secondo Forte, al contrario di quanto auspicato, la riforma costituzionale di Renzi toglie il bicameralismo come regola per approvare i conti pubblici e lo affida a una sola camera, mentre fa eleggere il capo dello stato solo dalla Camera, di cui diventa l’espressione. Tale sistema, privo di poteri di bilanciamento, sarebbe pericoloso per la finanza pubblica, anche con la regola di votazione a maggioranza semplice (che però non è prevista dalla nuova legge elettorale, che dà il premio di maggioranza alla lista di minoranza dotata del quoziente più alto). Infatti esso darebbe luogo alla dilatazione della spesa pubblica, a carico dei contribuenti appartenenti alla minoranza e alla formazione di deficit pubblici a carico degli anni successivi della medesima legislatura e a quelli seguenti, mediante la creazione di debiti che servono a esser rieletti.

Invero, prosegue Forte, la riforma costituzionale – in combinato disposto con l’Italicum – provoca finanche lo sfruttamento della minoranza sulla maggioranza perché si collega a una riforma elettorale che dà il potere non alla maggioranza, ma alla minoranza, tramite la concessione di un premio di maggioranza sproporzionato, in nome dell’efficienza decisionale, assunta come dogma: non come variabile da tenere presente nel “calcolo del consenso” per porre un limite al principio che più importa: una finanza pubblica che sia espressione della volontà di tutti o del maggior numero possibile.

Le riflessioni di Francesco Forte sono profonde e argomentate e non dovrebbero essere ignorate. Esse svelano come le riforme, seppur auspicabili in linea teorica, affinché possano essere accettate, devono quantomeno essere capaci di migliorare e non di peggiorare lo status quo come nel caso della Riforma Renzi-Boschi.

La riforma costituzionale persegue finalità opposte a quella visione del liberalismo popolare, tipica del popolarismo sturziano e dell’economia sociale di mercato di Wilhelm Röpke, nonché inclusiva delle istituzioni – di cui il Centro Studi Tocqueville-Acton si è sin qui fatto portavoce nel nostro Paese – indicata da Acemoglu e Robinson come l’unica via contro l’impoverimento di una nazione. Sarebbe stato necessario adeguare la nostra costituzione al contesto economico-istituzionale europeo, rendendo l’esecutivo un vero potere governante, capace di esprimere un indirizzo politico e di assumere il ruolo di vero e proprio motore del Paese; il parlamento – una Camera e un Senato (realmente) federale – un organo forte ed autorevole di controllo sull’azione dell’esecutivo, capace di controbilanciare il potere governante; la BCE il custode della stabilità monetaria e, infine, la Corte Costituzionale il custode dei diritti fondamentali della persona e della dignità umana.

La sfida non è ancora persa. Anzi, il fronte del NO ha la grande responsabilità, oltre che di opporsi a questa riforma, di proporre un’alternativa di governo e una proposta di riforma istituzionale in linea con la prospettiva liberal-popolare. Quanto al secondo aspetto, si tratterebbe di delineare un sistema di poteri e contropoteri capace di porre al centro la persona, facendo della tutela dei diritti sociali e del rispetto delle libertà il suo punto di equilibrio. Non basterebbe certo a risolvere ogni problema, ma avrebbe quantomeno il pregio di far cadere ogni alibi, indirizzando l’inevitabile percorso di riduzione della spesa pubblica non nella direzione della compressione dei diritti e delle libertà della persona, bensì, del complessivo ripensamento dell’apparato amministrativo centrale e periferico dello Stato, secondo il principio di sussidiarietà verticale ed orizzontale.

I problemi di governabilità non possono essere risolti con le scorciatoie, qual è la sostanziale neutralizzazione di una camera elettiva, solo perché di difficile gestione elettorale. La posta in gioco è troppo alta per giocare con gli assetti istituzionali che, per ben funzionare e non scadere nella tirannide della maggioranza, richiedono delicati equilibri e bilanciamento tra i poteri.



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