Le ragioni del SI e quelle del NO al referendum, del tutto specularmente, sembrano non cogliere, né tantomeno offrire una risposta credibile a, quel nodo istituzionale che – (non a caso) a partire dagli anni di esplosione della spesa pubblica – non solo blocca il Paese, ma lo condanna ad un inesorabile declino economico e sociale nel contesto dell’UE.
Stupisce l’assenza di uno sforzo teso a rendere consapevoli gli elettori del fatto che discutere di assetti istituzionali significhi, in ultima analisi, parlare della tutela dei diritti fondamentali della persona e quindi, necessariamente, delle dinamiche della spesa pubblica. Proprio a partire dagli assetti istituzionali, infatti, si innescano quelle dinamiche di raccolta del consenso che storicamente hanno determinato l’indirizzo della politica economica, sociale e finanche monetaria del nostro Paese. L’insostenibilità delle finanze pubbliche e l’evoluzione verso forme di sovranità sempre più condivisa ed interdipendente tra gli Stati, le organizzazioni internazionali e gli stessi mercati, implica la necessità di ripensare l’assetto istituzionale in funzione della difesa delle libertà e dei diritti sociali, e non a discapito di essi.
La portata dell’appuntamento referendario va dunque ben oltre le sorti del Governo Renzi, interessando in definitiva il futuro del nostro sistema di welfare. Non è in gioco il diritto di eleggere i rappresentanti del popolo in seno ad una piuttosto che a due assemblee elettive, bensì la ben più delicata libertà di poter accedere alle cure mediche, agli studi universitari, di fare impresa, di costruire una famiglia, di mettere al mondo dei figli, e così via. In definitiva, la stessa attuazione del principio di uguaglianza sostanziale.
Si persiste però a ragionare sul merito della riforma argomentando a partire dal modello classico della divisione dei poteri senza rendersi conto che, se esso ben si adattava ad un contesto di separatezza tra Stato e società – come ci ha insegnato un maestro del diritto costituzionale comparato, di stampo liberale, come Giovanni Bognetti – esso appare ormai inadeguato laddove tale rapporto risulti invece improntato ad una reciproca interdipendenza, come nel caso delle democrazie occidentali.
Se ci si pone in questa prospettiva, allora, è facile rilevare come la madre di tutte le critiche alla riforma costituzionale, ovvero l’obiezione rivolta verso la sua presunta deriva oligarchica (che qualcuno chiama invece governabilità), si infrange contro la constatazione della necessità, a maggior ragione in un regime democratico, di una classe dirigente auspicabilmente in grado di servire (anziché servirsi) delle istituzioni.
Il punto dolente della riforma sta piuttosto nella sua incapacità di introdurre nel nostro ordinamento quei sicuri ancoraggi costituzionali al modello del potere governante (e ai suoi contropoteri) che si è timidamente affermato nella seconda repubblica e che ricorre ormai in tutti gli ordinamenti occidentali, dagli Stati Uniti alla Germania.
In un contesto così delicato, nel quale i diritti e le nostre libertà risultano sempre più esposte a spinte tese ad un loro ridimensionamento, sarebbe stato auspicabile indirizzare lo slancio riformatore manifestato da questo Parlamento verso il superamento di questa anomalia istituzionale che caratterizza il nostro Paese. E che ha prodotto assetti di potere (garantendo – sebbene secondo logiche non sempre ispirate alla volontà popolare – anche un certo grado di rotazione, come ci ha ricordato Eugenio Scalfari su Repubblica) che si sono consolidati ed alimentati grazie a politiche di crescita abnorme e malsana del nostro welfare, a loro volta fondate su politiche monetarie inflazionistiche e sul deficit di bilancio.
Almeno finché resteremo nell’eurozona, il contenimento della spesa pubblica (con ciò che comporta sul fronte dei servizi sociali) rappresenta un passaggio ineludibile. Ci troviamo perciò di fronte a tre possibili scenari che sottintendono tre diverse proposte politiche.
Il primo implica la rinuncia a ridurre la spesa attraverso la ridefinizione del perimetro dell’intervento pubblico a vantaggio della società, scaricando tutto il peso della crisi fiscale sui livelli di protezione dei diritti sociali. Poiché ciò creerebbe instabilità sociale, rendendo nuovamente contendibile il potere a vantaggio delle formazioni politiche più populiste, l’attuazione di tale scelta politica richiede un consolidamento degli assetti di potere esistenti attraverso il combinato disposto di una riforma costituzionale e di una nuova legge elettorale capace di evitare che le necessarie politiche di contrazione dei diritti possano produrre scossoni sulla governabilità del Paese. Questa è la soluzione proposta dal PD di Renzi, la cui praticabilità passa per la riforma Boschi.
Il secondo è uscire dall’Euro, con l’illusione di riprendere in mano le leve della politica economica e monetaria al fine di ricorrere a misure inflazionistiche e ad un ulteriore stock di debito. E’ il percorso proposto in tutta Europa dagli oppositori della moneta unica e, dalle nostre parti, dalla destra di Salvini.
Il terzo è, invece, adeguare la nostra costituzione al contesto economico-istituzionale europeo rendendo l’esecutivo un vero potere governante, capace di esprimere un indirizzo politico e di assumere il ruolo di vero e proprio motore del Paese; il parlamento (composto da una Camera elettiva e un Senato composto dai rappresentanti degli esecutivi regionali) un organo forte ed autorevole di controllo sull’azione dell’esecutivo, capace di controbilanciare il potere governante; la BCE il custode della stabilità monetaria; e, infine, la Corte Costituzionale il custode dei diritti fondamentali della persona e della dignità umana. Una prospettiva politica questa che una forza di ispirazione liberale e popolare potrebbe far propria al fine di opporsi tanto all’egemonia renziana, quanto al populismo di Salvini e Grillo.
Si tratterebbe di delineare un sistema di poteri e contropoteri capace di porre al centro l’individuo, facendo della tutela dei diritti sociali e del rispetto delle libertà il suo punto di equilibrio. Non basterebbe certo a risolvere ogni problema, ma avrebbe quantomeno il pregio di far cadere ogni alibi, indirizzando l’inevitabile percorso di riduzione della spesa pubblica non nella direzione della compressione dei diritti e delle libertà della persona, bensì, del complessivo ripensamento dell’apparato amministrativo centrale e periferico dello Stato, secondo il principio di sussidiarietà verticale ed orizzontale.
La riforma costituzionale fornisce invece una soluzione diversa, perseguendo finalità opposte a quella visione inclusiva delle istituzioni indicata da Acemoglu e Robinson come l’unica via contro l’impoverimento di una nazione. A ciò si aggiunga che i problemi di governabilità non si risolvono con le scorciatoie, quale è la sostanziale neutralizzazione di una camera elettiva solo perché di difficile gestione elettorale. Del resto, il nuovo Senato – su cui si concentra la gran parte della riforma, limitandosi il resto a pochi restyling degni di nota – appare incapace di svolgere quel fondamentale ruolo di raccordo tra centro e periferia che in Germania è svolto dal Bundesrat.
Proprio il Senato, simbolo di questa riforma, sembra così tristemente svelare come il reale intento del legislatore fosse quello di fornire un ancoraggio costituzionale ad una legge elettorale pensata per una certa maggioranza politica e poco più. Una legge elettorale venuta meno la quale, forse, varrebbe la pena riportare le riforme lungo ben altri binari.