All’indomani del referendum britannico sull’Ue, abbiamo pubblicato le nostre riflessioni sulle implicazioni della vittoria del “leave” a livello di investimenti. Trascorsi due mesi, nei quali ne è passata di acqua sotto i ponti, è arrivato il momento di fornire un aggiornamento.
A giugno abbiamo ipotizzato che il risultato del referendum potesse portare a un radicale cambiamento della politica, con un orientamento fiscale più espansionistico affiancato da una svolta nella politica monetaria. Abbiamo suggerito che una serie di iniziative politiche in grado di ridurre il carico fiscale e gli investimenti infrastrutturali avrebbero potuto essere più efficaci rispetto alle misure adottate fino a quel momento. Abbiamo inoltre ritenuto probabile un aumento del run rate dell’inflazione. A nostro parere c’era inoltre margine per una risposta positiva dei mercati rischiosi alla gamma di stimoli presentati quando la prospettiva di un peggioramento del contesto della domanda non aveva ancora compromesso le prospettive di utile.
Dal momento in cui abbiamo espresso le nostre opinioni, i mercati azionari hanno messo a segno un’impennata (con il mercato britannico in rialzo del 15 per cento e gli indici mondiali del 9 per cento). Con un trend lievemente meno drastico, l’oro è salito dell’1 per cento, mentre la sterlina ha ceduto il 2 per cento (dato ponderato sulla base degli scambi commerciali). La Bank of England ha quindi mostrato i muscoli, introducendo un mix di tassi di riferimento più ridotti, un nuovo quantitative easing (che comprende gilt e obbligazioni societarie) e una vigorosa fase di “funding for lending”, il sistema di finanziamenti a favore dei prestiti della Boe. Ciò dimostra senza ombra di dubbio come Mark Carney abbia imparato (dalla Bce e dalla Bank of Japan) che essere poco decisi nell’attuazione della politica si rivela presto del tutto controproducente. La fortuna aiuta gli audaci.
“Non ci resta che sperare che il Cancelliere Hammond prosegua sulla linea di Mark Carney e prenda decisioni coraggiose.”
Tuttavia, per quanto riguarda il fronte fiscale, gli sviluppi devono ancora concretizzarsi. Detto ciò, il nuovo governo britannico ha lasciato intendere in maniera piuttosto esplicita che l’ortodossia dell’austerity della precedente amministrazione sarà sostituita da un maggior allentamento fiscale. Restiamo in attesa della Dichiarazione d’Autunno per accertarci di non aver travisato questi segnali. La performance dei mercati degli asset britannici – in particolare nei segmenti più direttamente esposti all’economia domestica – ha recuperato parecchio terreno in attesa che il libretto degli assegni del governo sia utilizzato in maniera adeguata (titoli come l’edilizia Bovis sono saliti più del 35 per cento dopo i minimi toccati a seguito della Brexit). Non ci resta che sperare che il Cancelliere Hammond prosegua sulla linea di Mark Carney e prenda decisioni coraggiose.
I prezzi degli immobili commerciali britannici, soprattutto nella zona sud-orientale, hanno subito i più duraturi contraccolpi del risultato del referendum. L’iniziale corsa alla vendita delle quote dei fondi immobiliari è parsa tuttavia una reazione eccessiva viste le limitate prove di operazioni effettive. È probabile che in alcuni casi la riduzione del 20 per cento si rivelerà un vero e proprio affare.
Appare inoltre evidente che il voto britannico non sia riuscito a catalizzare una valanga di reazioni populiste avverse in Europa. Ma la Brexit sta continuando ad agire come un ulteriore “shock” percepito per il sistema economico globale e sta tenendo a freno la normalizzazione della politica delle banche centrali, come dimostrano le nuove (e tanto auspicate) misure di sostegno alla politica monetaria. Dai sondaggi emerge che i datori di lavoro restano in genere alquanto cauti in merito alle prospettive future ma l’ondata di licenziamenti tanto temuta dalla Bank of England deve ancora manifestarsi e l’istituto sembra determinato a scongiurare questo rischio.
Fuori dal Regno Unito, la Bce e la Bank of Japan continuano a stimolare le rispettive economie e la Federal Reserve statunitense sembra destinata a intervenire sul tasso di riferimento solo una volta ottenuto il permesso dei mercati. La Cina si trova in una fase di ciclica ripresa e gli asset dei mercati emergenti continuano a calamitare l’attenzione degli investitori internazionali. Queste politiche benigne, la moderata crescita economica e i tassi di sconto molto più bassi stanno incidendo positivamente sui mercati del rischio.
La presenza di ridotti rendimenti determina però un’intensificazione della pressione sui bilanci istituzionali più importanti; gli asset growth possono anche aver registrato una buona performance ma sono stati di gran lunga inferiori rispetto all’aumento dei valori delle passività. Il risultato è stato un ulteriore arretramento dei livelli di solvibilità che, a sua volta, ha aumentato la pressione sugli sponsor a spostare gli utili dal reinvestimento in future allettanti opportunità alla riduzione dei deficit maturati.
“…se intendono veramente riuscire a risolvere la più complessa serie di problemi economici a memoria d’uomo, i policymaker – in ambito monetario, fiscale e normativo – devono agire di concerto.”
Ma il quantitative easing non dovrebbe funzionare in questo modo. Ciò mette forse in luce la più grande sfida che ha dovuto affrontare l’amministrazione in carica dallo scoppio della Grande crisi finanziaria: se intendono veramente riuscire a risolvere la più complessa serie di problemi economici a memoria d’uomo, i policymaker – in ambito monetario, fiscale e normativo – devono agire di concerto (e il Giappone è l’esempio vivente di quanto sia assurdo non farlo). Non è la prima volta che il Regno Unito ha l’opportunità di darne una dimostrazione e il summit del G20 che si terrà in Cina a inizio settembre potrebbe essere l’occasione per portare avanti il dibattito.
Speriamo che l’autunno-inverno porti con sé un nuovo approccio alle sfide economiche che dobbiamo affrontare e che i mercati reagiscano in maniera favorevole. Ma la posta in gioco è alta. La Brexit ha portato i rendimenti obbligazionari a livelli mai raggiunti in precedenza. Se consentiamo a questi rendimenti di riflettere invece che stimolare la domanda finale, le ripercussioni saranno necessariamente gravi. Tra poco sarà il decimo anniversario dalla caduta di Northern Rock. Speriamo di non sprofondare in una crisi più generale.