In apparenza la disputa fra la Commissione Europea e il governo italiano a proposito del bilancio dello Stato per il 2017 verte su una questione minuscola. Si tratterebbe di una differenza dell’0,1% del reddito nazionale: l’Italia si propone di contenere il deficit all’2,3% del reddito nazionale; Bruxelles vorrebbe il 2,2%. In euro si tratta di 1500-1600 milioni di euro, una cifra che si potrebbe facilmente recuperare contabilmente, su un bilancio di 800 miliardi ed oltre, anticipando o posticipando una qualunque voce dio entrata o di spesa. Ed è molto probabile che, alla fine, questa sarà la soluzione: l’Italia farà qualche aggiustamento, la Commissione Europea si dirà o fingerà di essere abbastanza soddisfatta, anche perché vuol dare una mano all’Italia con le scadenze politiche difficili che il governo Renzi ha davanti a sé.
Ma dietro la disputa, è chiaro che c’è qualcosa di più. Anzi c’è molto di più. Ed il problema che rende difficilissimo questo contrasto è che hanno ragione tutti e due, sia la Commissione che l’Italia.
In realtà, la Commissione non protesta per lo 0,1 di differenza. I suoi dubbi sono molto più radicali. Da un lato investono le cifre del bilancio: essi non credono alle coperture indicate dall’Italia per molte delle spese annunciate; o temono che si tratti di coperture una tantum per spese ricorrenti che quindi diventerebbero maggiori deficit nei bilanci successivi. E soprattutto non credono che il reddito nazionale italiano crescerà dell’1%. Mettendo insieme le due cose, la Commissione teme che invece di restare al 2,5, il rapporto deficit-PIL nel 2017 possa andare parecchio più su e soprattutto teme che, come è avvenuto finora, invece di scendere, nel 2017 continuerà a crescere il rapporto debito-Pil.
Questo è il vero motivo di preoccupazione. Perché è il debito pubblico italiano il vero problema: tutti si chiedono che cosa avverrebbe – o meglio cosa avverrà – quando la BCE dovesse dare avvio a un riaggiustamento verso l’alto dei tassi d’interesse ed è difficile negare che questo sia un problema non solo per noi, ma per l’Europa nel suo insieme.
Quanto al governo italiano, esso protesta che la Commissione faccia storie per un 0,1% in più, ma ha in mente un problema più ampio. Dice il presidente del Consiglio che l’Italia può uscire dalla crisi solo se riprende a crescere e per farlo ha bisogno di sostenere la domanda con misure quantitativamente significative. Come lui, lo ha detto esplicitamente il ministro dell’Industria e, per la prima volta, lo ha detto ieri in un’intervista il ministro dell’Economia Padoan, parlando di una possibile crisi dell’Europa, cosa che finora aveva sempre evitato di fare.
Sentono, gli uomini di governo italiano, che dall’Europa non viene un aiuto ad affrontare il nodo della crescita che è quello che a sua volta da luogo all’evidente malcontento popolare nel nostro Paese, e nel Mezzogiorno in particolare. Non basta certamente quell’0,1 di più. L’Italia pone il problema dello O,1 ma ha in mente un tema più ampio che oggi l’Europa non è in grado di affrontare.
Se ne può uscire? La Germania avrebbe, sulla carta, la chiave per una risposta, come hanno detto in molti fra cui, autorevolmente, il presidente della BCE, Draghi. La Germania ha un fortissimo attivo della bilancia dei pagamenti. Se stimolasse la domanda interna, crescerebbero le sue importazioni, l’attivo si ridurrebbe, ma soprattutto si aiuterebbe la ripresa di molti paesi, fra cui in prima linea l’Italia, la cui industria manifatturiera lavora a stretto contatto con la Germania.
Ma, se è facile giungere a questa conclusione, per la Germania è difficilissimo aderirvi per evidenti ragioni politiche. Come si è visto in tutte le tornate elettorali più recenti, anche la cancelliera Merkel ha sul collo il fiato di un’opposizione che le mangia i voti. Con coraggio, ha scelto una strada responsabile sul problema dell’immigrazione e sta pagando molto cara questa posizione. È molto difficile che possa fare una politica economica per cui sarebbe accusata di voler aiutare dei paesi che, nell’immagine popolare tedesca, invece di comportarsi seriamente, cercano di prolungare vecchi vizi mai sopiti. È anzi praticamente impossibile che, a un anno dalle elezioni politiche, la signora Merkel possa rischiare tanto.
Senza la moneta unica, il problema sarebbe già stato risolto attraverso un aggiustamento dei tassi di cambio che sono il vero problema dell’Europa. Essi sono bloccati al livello scelto nel 1998 – quasi venti anni fa – mentre le dinamiche dei singoli paesi dell’eurozona hanno proceduto in maniera divergente. L’Italia e gli altri paesi che ne avrebbero bisogno svaluterebbero, il marco salirebbe e il commercio internazionale si incaricherebbe di sistemare le cose. Ma, con la moneta unica, questo non si può fare. Per cui le difficoltà politiche interne si scaricano sui rapporti politici fra i paesi dell’eurozona.
Questa è la fotografia della situazione. Essa individua un contrasto di fondo: un matrimonio, quello della moneta unica, se non fallito, certo fortemente incrinato, ma non una via d’uscita. Servirebbe- anzi sarebbe servita – una grande visione europea, che non c’è, o per andare avanti mettendo in comune i problemi, o, in alternativa, per restituire qualche grado di flessibilità alle economie dei Paesi membri.
Probabilmente si cercherà e forse si troverà, ancora una volta, una soluzione provvisoria che contemperi, in qualche modo, le ragioni degli uni e quelle degli altri. Ma il problema è molto più grave e non è con il passare del tempo che lo si curerà.