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La Roma dei gladiatori e la Roma a 5 stelle

Per alcune persone viene il giorno in cui devono dire il grande Sì o il grande No. Si vede subito chi ha pronto il grande Sì dentro di sé, e nel pronunciarlo accresce la propria stima e persuasione. Chi rifiutò non si pente. Se glielo richiedessero direbbe ancora no. Eppure quel rifiuto – quel giusto no- per tutta la vita lo rovina”.

(Costantino Kavafis)

Ogni riferimento al referendum costituzionale non è puramente casuale.

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“Noi siamo un popolo dall’anima potentemente tragica, contrario alle cose prosaiche e consuete, e tutto il nostro amore va al destino, un destino pur che sia, magari la rovina che infiamma il cielo con la rossa vampa d’un crepuscolo degli Dei! “. È un passo del “Doctor Faustus” di Thomas Mann. Come osservava un grande critico letterario italiano, Cesare Garboli, a questa rappresentazione dell’anima tedesca – in termini insieme nibelungici e dionisiaci – deve molto la mitologia del teutonico che si è creata nel corso del tempo. Si pensi però alla sordità, se non alla cecità, di Angela Merkel e della destra bavarese di fronte alla crisi europea. Difficile vedervi la passione del sublime, l’idolatria del destino, le fiamme della catastrofe, il naufragio degli Dei. Facile leggervi, invece, una fredda e inflessibile difesa degli interessi nazionali della Germania, che non esprime nessuna fatalità e nessuna tragedia. Che cosa c’è, infatti, di più “prosaico e consueto”?

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Oggi Roma si è svegliata senza gladiatori”, titolavano molti quotidiani il 26 novembre scorso. In verità, i figuranti in costume aboliti dall’ordinanza dell’allora commissario Francesco Paolo Tronca erano centurioni. Poco importa, perché nessun’altra espressione della cultura romana ha oggi, in Italia e all’estero, una popolarità paragonabile a quella dell’arte gladiatoria. Hollywood l’ha raccontata in film memorabili come “Spartacus” di Stanley Kubrick (1960) e “Il gladiatore” di Ridley Scott (2000). I due grandi registi sono gli epigoni di una lettura del fenomeno che risale all’Ottocento. Nel famoso dipinto di Jean-Léon Gérôme “Pollice verso” (1872) e nel romanzo di Henryk Sienkiewicz “Quo Vadis?” (1896), ad esempio, l’anfiteatro è brulicante di una folla in preda al fanatismo e avida di violenza. È il luogo in cui si consuma simbolicamente la decadenza di una civiltà, alla quale si possono opporre solo “uomini puri” e non contagiati dalla corruzione della metropoli. Nell’opera del polacco Sienkiewicz sono i Ligi, antenati dei connazionali dello scrittore. Nella pellicola di Kubrick è uno schiavo trace, in quella di Scott un generale ispanico.

Oggi alla decadenza della “città eterna” hanno promesso di opporsi altri “uomini puri”, i grillini, guidati da una donna a sua volta guidata dal più puro di tutti, tanto da farsi chiamare (scherzosamente, spero) “l’Elevato”. Che Dio ce la mandi buona.

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