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Gli Stati Uniti non sono una potenza in declino. Parola di George Friedman

Ci sarà un motivo per cui www.stratfor.com ha perso mordente? Rimane uno dei siti di riferimento per chi si occupa di geopolitica, ma da quando il suo fondatore, George Friedman, ha detto addio alla sua creatura qualcosa inesorabilmente è andato perduto.

E allora vale la pena di seguire George Friedman nella sua nuova avventura. Diamogli tempo e arriverà a essere altrettanto influente nei circoli che contano dell’establishment americano. Infatti è a loro che Friedman si rivolge. Ripeto, a loro e nessun altro. Il suo intento è di forgiare regole spietate che gli Stati Uniti non potranno che rispettare per mantenere la propria egemonia nei prossimi decenni. Le ha descritte in tre libri di recente pubblicazione (a proposito, a quando una loro traduzione in italiano?).

In “The Next Hundred Years” l’autore, pur ammettendo di non possedere una sfera di cristallo, sostiene che l’attività di prevedere il futuro non è affatto frivola. La geopolitica fornisce alcuni strumenti che, una volta applicati, riducono l’ampiezza delle mosse possibili nello scenario internazionale. Un bravo leader farà quel che deve fare date le circostanze e non ciò che desidererebbe, mentre un leader inetto – per quanto inetto – non riuscirà con le sue scelte inopportune a rovinare il luminoso cammino di una nazione destinata a emergere. Il nostro comportamento ha sempre come scopo precipuo l’appagamento di interessi a breve termine con conseguenze che si ramificano all’interno di costrizioni storiche e geografiche, cioè di forze impersonali e imprescindibili che danno forma al futuro. Tanto per fare un esempio, il centro nevralgico del mondo si è spostato dall’Atlantico al Pacifico. Se negli ultimi 500 anni – dal 1492, scoperta dell’America, al 1992, crollo dell’Unione – chi controllava l’Atlantico settentrionale controllava il mondo intero, adesso l’asse si è spostato a favore di chi controlla contemporaneamente l’Atlantico settentrionale e l’oceano Pacifico.

L’assunto numero uno è che il buonsenso non serve a nulla, le persone ragionevoli non si accorgeranno mai di quel che sta per accadere. Immaginiamoci di trovarci agli inizi del ‘900, quando l’Europa raggiunge il suo apogeo e il futuro promette pace e prosperità. Di lì a poco due guerre atroci avrebbero devastato l’Europa e inaugurato la sua decadenza. Chi avrebbe allora ipotizzato che gli Stati Uniti sarebbero subentrati come il paese economicamente, militarmente e politicamente più potente sulla faccia della terra? Oggi il ruolo di dominatore del ventunesimo secolo spetta a loro, e nessuno li può veramente sfidare, con buona pace dei profeti di sventura che non perdono occasione di intravederne una caduta.

Gli Stati Uniti occupano un territorio, tuttora in larga parte sottopopolato, che è invulnerabile alle invasioni. Sono un popolo bellicoso, hanno combattuto in molte guerre, ma tutte in suolo straniero, mai nella madrepatria. Controllano tutti gli oceani, dal Mar Cinese Meridionale alla Costa africana, dal Golfo Persico ai Caraibi. Qualsiasi imbarcazione in movimento è scrutata dall’occhio onnipresente dei satelliti americani. La U.S. Navy può garantirne o vietarne l’accesso. Ciò significa il controllo del commercio internazionale. Chiunque trascuri la portata del potere statunitense ha, quindi, perso dimestichezza con la realtà.

Ma Friedman non si ferma qui. Arriva a dire che questa parabola è soltanto all’inizio. Ben lontani dal declino hanno appena cominciato l’ascesa. Chi ricorda l’aforisma di Nietzsche, “dicono si stia ritirando ma in realtà ha solo preso la rincorsa”? Il ventunesimo secolo sarà americano perché gli Stati Uniti sono diventati il centro di gravità del sistema internazionale. Quando li vediamo eccessivamente sicuri di se stessi o in crisi d’identità va ricordato che si tratta di tipiche fasi adolescenziali di chi sta per raggiungere l’età matura, un passaggio che viene esaminato nel secondo libro, “The Next Decade”. Qui l’autore si sofferma su una contraddizione: non ha senso chiedersi se gli Usa siano o meno un impero, lo sono e basta. Eppure sono nati combattendo contro l’imperialismo britannico. Man mano che l’espansione procede, riusciranno a mantenere le istituzioni democratiche volute dai padri fondatori? “The Next Decade” si presenta come un manuale per un presidente machiavellico in grado di prendere il meglio da tre illustri predecessori: Abraham Lincoln che salvò la repubblica, Franklin Roosevelt che ottenne il comando degli oceani e Ronald Reagan che sconfisse l’Unione Sovietica e gettò le basi per l’impero.

Viene messo al bando qualsiasi sentimento nostalgico. Gli Stati Uniti non possono più disimpegnarsi dalle complessità del mondo globale per evitare rappresaglie o cercare di farsi amare. Ciò che consumano e producono ha effetti invasivi nella vita degli altri. L’ingerenza provocherà risentimento. Un passo in una direzione danneggerà qualcuno e beneficerà qualcun altro, creando ostilità, infatti prosperità e isolazionismo non vanno d’accordo. Questo è il prezzo che si paga a essere un impero, anche se diventarlo non era nelle tue intenzioni. Prendi il debito pubblico. I prestiti possono aumentare o diminuire. In ogni caso la loro oscillazione avrà un impatto enorme sulle altre economie. Prendi gli interventi militari in Libano, Panama, Kuwait, Somalia, Haiti, Kosovo, Afghanistan o Iraq. Ciò che per gli Stati Uniti è un evento transitorio diventa una pietra miliare nella percezione degli altri. Per i primi è una schermaglia, per gli altri una questione vitale. Questa indifferenza e questa invulnerabilità non possono che generare rabbia. Quando l’impero romano prese consapevolezza di se stesso Virgilio ne cantò le lodi. Rudyard Kipling si assunse lo stesso ruolo nell’impero britannico. Chi sarà il cantore dell’autoconsapevolezza americana? (Se fosse Bob Dylan, come ho cercato di sostenere nel mio saggio “Ballando con Mr D.”?)

Uno sguardo brutale al resto del mondo.

Il Friedman-pensiero sicuramente urterà molte sensibilità. Il metodo ricorda la “psicostoria” nella Trilogia della Fondazione di Asimov dove Hari Seldon non la smette mai di azzeccare quel che poi avviene secoli dopo. Il campanello d’allarme in me è scattato quando Friedman, in piena era Ahmadinejad, profetizzò che all’America sarebbe convenuto allontanarsi da Israele e stipulare un patto con l’Iran, cosa impensabile all’epoca ma puntualmente avvenuta. Così come Roosevelt si era alleato con Stalin e Nixon con la Cina, Obama alleandosi con l’Iran mantiene costante il flusso di petrolio nello Stretto di Hormuz e mette in riga le velleità saudite.

Il secondo campanello d’allarme risale al 2011, quando Friedman ventilò l’ipotesi e la necessità di un morbido rappacificamento con Cuba – poi sancito dall’apertura di Obama (o dal concerto dei Rolling Stones, a seconda dei punti di vista) – possibilmente prima che i Castro abbandonassero le redini. Perché Cuba? Per la sua posizione nel Golfo del Messico e la prossimità al porto commerciale di New Orleans. Per questo la presenza di basi sovietiche nell’isola non fu mai accettata.

La Russia imploderà. Alla lunga pagherà la debolezza dei suoi confini e l’arretratezza dei sistemi di trasporto. Persino i fiumi, secondo Friedman, scorrono nella direzione sbagliata! Putin è stato bravo e audace. Invece di competere con l’Occidente per fare della Russia una potenza industriale, Putin l’ha trasformata in un’esportatrice di risorse naturali: metalli, grano e soprattutto energia. Gazprom è diventato un braccio del governo con il monopolio del gas naturale, una specie di “spacciatore” per le nazioni europee assetate di energia. Nel lungo periodo questa strategia non funzionerà perché non getta le basi per una vera espansione economica.

La Cina è una tigre di carta. Potrebbe persino disunirsi, riproponendo la stessa frammentazione del diciannovesimo secolo quando le città della costa si aprirono al commercio con gli inglesi mentre il centro rimaneva povero. La Lunga Marcia di Mao cacciò gli stranieri e impose l’isolazionismo. La Cina sarà di nuovo troppo occupata a scegliere tra instabilità e repressione.

I tre alleati del futuro per gli Stati Uniti sono Polonia, Turchia e Giappone. Gli Stati Uniti approfitteranno del declino della Germania e della secolare paura dei polacchi nei confronti della Russia per promuovere la Polonia, coi suoi 40 milioni di abitanti, a capo di una lega comprendente Ungheria, Romania e i paesi Baltici in quella zona strategica. Ai tempi dell’impero ottomano la Turchia aveva già dominato nel Mediterraneo e tornerà a rappresentare un centro di gravità nel mondo islamico con un’economia stabile e un esercito all’altezza. Anche il Giappone sarà affidabile fino al momento in cui, inevitabilmente, torneranno ad affermarsi le tendenze militariste (detto per inciso, le due Coree saranno di nuovo unite entro il 2030).

La guerra al terrorismo islamico va messa nella giusta prospettiva perché esso non rappresenta un pericolo esistenziale per gli Stati Uniti. Non va ignorato e nemmeno collocato in cima alle priorità della politica estera per non ripetere l’errore commesso da George W. Bush, quando l’ex presidente cadde nella trappola della propria ossessione e non trovò le risorse per fronteggiare Putin. E’ vero, i Talebani non sono stati sconfitti ma non hanno nemmeno vinto, e questo può bastare fintantoché i guerriglieri islamici si combattono tra loro.

La più importante statistica mondiale riguarda il generale declino delle nascite. Prepariamoci a un futuro dove i paesi più sviluppati si contenderanno gli immigrati. Il problema non sarà limitare l’immigrazione bensì come attrarre gli stranieri.

Con la sola eccezione del Messico, l’America Latina (come del resto l’Africa) non richiede un forte coinvolgimento degli Usa. Se fino a oggi il Messico ha sofferto della vicinanza del colosso statunitense, le cose stanno cambiando. Gode degli stessi vantaggi geopolitici. E’ ricco di petrolio, e contrariamente alla Russia non dipende dal petrolio per la crescita economica. Il trattato di Nafta si rivelerà un’opportunità. Il flusso di denaro che gli immigrati che hanno varcato la frontiera rimandano verso la madrepatria costituisce una fonte di liquidità. Inoltre, i proventi del commercio della droga saranno stati ripuliti dalla seconda o terza generazione dei narcotrafficanti. Tra il 1830 e il 1850 gli Usa strapparono al Messico molti territori. La porosità di queste terre di confine finirà coll’avvantaggiare la popolazione messicana, destinata a surclassare quella di lingua inglese. Entro la fine del secolo gli Stati Uniti dovranno ben guardarsi dal loro competitor più agguerrito, il Messico.

L’Europa merita un discorso a parte. Friedman lo affronta in “Flashpoints. The Emerging Crisis in Europe”, dove si interroga su una particolare coincidenza del 2008, quando due episodi apparentemente non connessi minano l’unità europea. Il 7 agosto la Russia attacca la Georgia. Putin scommette e vince. Gli Stati Uniti sono impegnati in Medio Oriente, la Nato è l’ombra di se stessa e nessun altro stato europeo, ovviamente, accetta di imbarcarsi in un’avventura solitaria. Qual è la posizione solenne dell’Unione europea? Non si sa. Il 15 settembre fallisce Lehman Brothers, con un effetto domino che colpisce il mondo intero. La Banca centrale europea si trova a fronteggiare la burrasca finanziaria senza una bussola e senza la coesione dei singoli stati. Il punto secondo Friedman è che l’arroganza non paga. L’Ue si fonda sulle sabbie mobili. Non puoi costruire la tua missione su “pace e prosperità”. E se pace e prosperità svaniscono? Cosa rimane? Quali sono i tuoi valori europei? Nella sua epoca d’oro l’Europa conquistò il mondo, ma non seppe conquistare se stessa. L’arroganza dell’esperimento europeo è credere che le guerre fratricide non si ripeteranno, ma il passato ritorna.

Il 14 settembre scorso Friedman pubblica l’articolo “Italy is the Mother of All Systemic Threats” in cui paragona l’attuale situazione italiana a quella di Cipro del 2013, quando l’Unione Europea impose un prelievo forzoso ai correntisti dell’isola, alcuni dei quali si presume fossero mafiosi russi, ma che per due terzi costituivano la classe media dell’isola. In quell’occasione – commenta Friedman in “Flashpoints” – l’Europa adottò la solita politica di essere forte con i deboli e debole con i forti, poiché lo stessa minaccia era già ventilata a Ungheria, Spagna e Grecia senza che si arrivasse a drammatiche conseguenze.

Le sue teorie spiazzano. La sua posizione è chiara e nettamente pro americana. Ho notato nei suoi presupposti una intrinseca fiducia nella razionalità delle decisioni politiche prese dai leader. Cita persino Hegel riguardo alla razionalità del reale. In fondo la geopolitica si basa sull’esistenza di una mano saggia e invisibile che muoverebbe le sorti delle nazioni verso una certa direzione. Se togli questa convinzione che ne resta del tuo oroscopo? Io ribalterei la situazione. Mi chiedo se talvolta non esistano pulsazioni più oscure, desideri di autodistruzione, oppure decisioni prese quasi “per il gusto di”, dove il fine pratico non esiste o funge da paravento. Può sembrare strano che molto dipenda da un capriccio finché non osservi i capi di stato fare gli spiritosi in pubblico. Dalle tesi di Friedman emerge comunque una cosa certa: il vero scontro di civiltà non è fra l’America e l’Islam, bensì fra l’America e l’Europa.

Vorrei essere più preciso: è fra gli Stati Uniti e l’Europa mediterranea, dalla Francia in giù. Friedman deride il comune buonsenso ma poi sembra dare per scontata la ragionevolezza delle azioni umane, mentre esiste un gusto tipicamente mediterraneo che si rivolge all’azione fine a se stessa. Friedman sembra disprezzarla. Lui tifa per una cultura molto più barbarica, riduzionista, pragmatica, efficiente. Laddove noi contempliamo lui intravede il fine utilitaristico e pratico. L’atto gratuito e il piacere estetico contro la macchina da guerra della Coca-Cola? Il fatto che si possa vincere questa battaglia sembra davvero una pia illusione.


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