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Vi racconto la maledetta bellezza dell’Appennino

Di Vittorio Macioce

Ogni passo sembra un incanto e spesso ti perdi in quelle case vuote, di gente che non c’è più, di figli ormai vecchi che tornano solo d’estate, quattro giorni ad agosto, magari per la festa del patrono, per ricordare infanzie tradite, per sognare un ritorno. Sono case dove non vivi, con luci non consumate, con i tetti da rifare e lavori di manutenzione che ti riprometti di cominciare, ma poi passa il tempo e non trovi la voglia o soprattutto i soldi. Sono seconde case su cui pagare le tasse, che ti viene la rabbia di venderle, ma ci sei nato e cresciuto e allora dici: aspettiamo ancora un po’. Sono case di paesi dove ogni volta che torna l’inverno ci si conta e si è sempre di meno. Gli italiani di paese si riconoscono tutti, a pelle, e si portano dietro questa malinconia, come chi danza sulla tragedia e cerca ogni giorno di ritrovare quel posto sicuro che chiamano Itaca, che poi tanto sicuro non è. E questo capitale umano lo portano a spasso nel mondo, come raccontava Pavese. “Che cos’è questa valle per una famiglia che venga dal mare, che non sappia niente della luna e dei falò? Bisogna averci fatto le ossa, averla nelle ossa come il vino e la polenta, allora la conosci senza bisogno di parlarne”.

I paesi dell’Appennino hanno più o meno lo stesso odore, le stesse mani, gli stessi occhi, la stessa nostalgia. Sono la spina dorsale dell’Italia. Ti fanno sentire a casa. Quando guardi il cielo ti sembra che le stelle stiano lassù solo per te. Quei cieli li vedi solo qui e non li dimentichi. Solo che sono stelle morenti e tanta bellezza si porta sulla pelle un’incosciente fragilità. A chi tocca, stavolta? Accumoli, Posta, Arquata e alla piccola frazione di Pescara del Tronto, a Catelluccio o Mogliano, ad Amatrice, spogliata e spaccata in due, con il sindaco Sergio Pirozzi, sanguigno e verace, che questa notte ha pianto, urlando al mondo: “Il paese non c’è più”. Amatrice dove d’estate tornano tutti quelli che sono andati via, orgogliosi di quel nome e di quella ricetta, del guanciale e del pecorino, contro tutte le varianti metropolitane e di falsi chef. Amatrice che adesso non smette di contare i morti e tra queste macerie fatica a riconoscersi.

Maledetto Appennino. E ti viene da gridarlo, perché è il prezzo da pagare per la tua bellezza. È che il terremoto, da queste parti, è una roulette russa, speri sempre che non tocchi a te, ma lo sai, le conosci queste colline, queste montagne che ti guardano negli occhi, vedi l’abbandono, senti che l’uomo si affida troppo spesso alla fortuna. Il guaio è che non tutto è sempre così semplice. L’Italia per secoli ha giocato a morra con la natura e con i terremoti. Prevenzione, certo. Ma per mettere in sicurezza queste mura e queste case servono soldi, tanti. Non li hanno i comuni, non li hanno i privati e non li ha il padreterno. Ci sono chilometri di prediche e raccomandazioni, ti chiedi però se ci sia una politica. Non sembra. Puoi metterci cuore e anima per un futuro diverso, puoi raccontare che è nei piccoli paesi la via di fuga di un’Italia da troppo tempo malata di cecità, il paese come luogo dove riconoscersi, dove ricominciare, dove creare l’humus migliore del capitalismo del nuovo millennio. Puoi raccontarlo a te stesso e agli altri. Poi la terra trema e quello che resta sono macerie. Ci vorrebbe una macchina del tempo. Un viaggio nel passato, dove il paese non muore, non viene tradito, ripudiato. Un paese di cui prendersi cura, perché ci vivi, perché ci sei. Un paese dove i campanili appena ristrutturati non cadano a terra. Solo che questo paese non esiste. Ci tocca tirare a campare con la maledizione della bellezza. Lo senti questo tiro di dadi? È il terremoto.

(Qui il pezzo su il Giornale)

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