Mai come quest’anno, l’approvazione della legge di bilancio si intreccia con tanti aspetti politici, costituzionali ed internazionali. Per il governo si tratta di una campagna elettorale in piena regola in vista del referendum, giocata in solitaria: avendo in esclusiva il diritto di presentare al Parlamento la legge di bilancio, che da quest’anno assorbe anche la legge di Stabilità potendo introdurre nuove e maggiori entrate o spese, può fare e disfare, a proprio piacimento.
Tra l’Aggiornamento del Documento di economia e finanza e gli annunci quotidiani, della manovra dovremmo già aver appreso tutto. Si ricomincia con la clausola di salvaguardia relativa all’aumento dell’Iva, che non viene fatta scattare: da sola, vale ben 15 miliardi di euro su una manovra che incide per un totale di 24,5 miliardi. Comportando minori entrate rispetto al bilancio redatto a legislazione vigente, questa decisione comporta una copertura finanziaria, ed a questo fine viene equiparata ad una maggiore spesa. Secondo quanto anticipato, vanno aggiunti: 2/3 miliardi per gli interventi contenuti nella strategia Industria 4.0, per la proroga dell’ammortamento a fini fiscali degli investimenti al 140% e l’introduzione dell’iper-ammortamento del 250% per quelli in tecnologie informatiche e digitali; 340 milioni di euro per gli sgravi fiscali sul salario di produttività che viene esteso ai lavoratori delle fasce intermedie; 400 milioni di euro per l’Università e la ricerca ed altrettanti a favore del comparto scolastico; 600 milioni per i nuovi contratti per il pubblico impiego; 1,5 miliardi per interventi nelle zone del Centro Italia di recente colpite dal terremoto; 2 miliardi per gli interventi nel settore delle pensioni, al fine di agevolare le uscite anticipate rispetto alle scadenze imposte dalla legge Fornero; altri 1,2 miliardi per non meglio precisate altre misure.
Molto più scarno, invece, è il livello di dettaglio delle maggiori entrate necessarie per far quadrare la manovra, per un totale di 24,5 miliardi di euro. Il deficit aggiuntivo, rispetto al quadro a legislazione vigente che lo prevedeva all’1,8% del pil, dovrebbe essere di 6,4 miliardi, somma di poco inferiore a mezzo punto di pil, che lo porterebbe all’annunciato 2,4%. Ci sono “altre entrate” non meglio identificate, un robustissimo recupero della evasione fiscale, “ulteriori coperture” e “risparmi di spesa” derivanti dalla spending rewiew. Di queste ed altre misure, assai poco strutturali, si sa poco: si parla di gare per l’assegnazione delle frequenze e di proventi ulteriori dalle videolotterie. Alla ben nota proroga della Voluntary disclosure per i beni detenuti all’estero, se ne aggiunge una nuova, volta a far emergere la consistenza di beni di valore detenuti in Italia, ad esempio i contanti detenuti nelle cassette di sicurezza. Dopo l’emersione delle proprietà immobiliari in ambito rurale, il tracciamento delle detenzioni sui conti correnti e nei conti titoli, si completa la mappatura del profilo patrimoniale dei contribuenti, magari finalizzata alla introduzione di una imposta sul patrimonio, che naturalmente considererebbe anche le prime case.
Utilizzando il traino delle misure di spesa contenute nella legge di bilancio, il governo spera di vincere il referendum e di avere la strada spianata fino al 2018, ed oltre: ripete lo schema degli “80 euro in busta paga”, che fruttarono il 40% dei voti alle elezioni europee del maggio 2014. Per portare i cittadini a votare sì al referendum, occorre che le misure di spesa siano ben visibili, ed approvate almeno in prima lettura entro la data in cui si vota per il referendum.
Il quadro dei conflitti si è semplificato. La apertura della Commissione europea nei confronti della manovra di bilancio per il 2017 rappresenta un chiaro segnale di aiuto al governo italiano: aver riconosciuto la gravità dell’emergenza migranti e dei danni del terremoto, ai fini della attivazione della clausola di flessibilità del deficit, ha dimezzato l’area delle divergenze, ridottasi all’aumento del deficit, dall’1,8 al 2%, al netto di queste spese eccezionali. La Commissione europea non ha intenzione di mettere in difficoltà il governo italiano alle prese con il referendum sulle riforme costituzionali, ma soprattutto non ci sta a fare da falso scopo per i conflitti interni: per questo motivo si è defilata. Questo successo, però, così immediato ed a buon mercato nella trattativa con Bruxelles, potrebbe non essere stato una mossa azzeccata: viene infatti a mancare un motivo di polemica verso l’esterno, che distoglie l’attenzione dal merito delle questioni e che torna utile quando si tratta di compattare le forze all’interno.
La partita, ora, si gioca tutta in casa, ed inizia dal Senato, dove i numeri della maggioranza di governo sono assai meno favorevoli rispetto alla Camera. Il timing del confronto referendario sulla riforma costituzionale, che si terrà il 4 dicembre, si combina esattamente con quello della conclusione dell’iter di approvazione in prima lettura del disegno di legge di bilancio, che dura all’incirca 45 giorni dalla data di effettiva presentazione dei documenti. Un voto favorevole del Senato, prevedibile tra il 28 novembre ed il 2 dicembre, sarebbe importantissimo per il governo: anche così si spiega la data prescelta per il referendum, che tiene conto anche dello slittamento in avanti, rispetto al passato, della data di presentazione del disegno di legge di bilancio.
Ci sono però diversi ostacoli da superare, sul piano procedurale e politico: né il Senato, né la Camera dei deputati hanno aggiornato i rispettivi Regolamenti per tener conto della novità rappresentata dall’assorbimento della legge di Stabilità all’interno di quella di bilancio. Questa confusione procedurale non sembra preoccupare il governo, che anzi ne approfitterebbe per utilizzare ancora una volta lo schema usuale degli ultimi anni, in cui tutti i governi non hanno tenuto in alcun conto né i lavori delle Commissioni, nè gli emendamenti all’esame dell’Aula: si limita a presentare un maxi emendamento all’ultimo minuto, su cui pone la questione di fiducia, con cui si sostituisce qualsiasi altro testo precedente facendo decadere ogni proposta parlamentare. Stavolta, la coincidenza con la tornata referendaria, farebbe emergere il dato politico istituzionale più rilevante degli ultimi anni: la nullificazione del Parlamento e la prevalenza assoluta del governo, anche e soprattutto in materia di bilancio. Stavolta, l’ennesima forzatura procedurale, dal contingentamento dei tempi del dibattito alla decadenza degli emendamenti parlamentari, farebbe scattare una sorta di chiamata alle armi da parte di coloro che temono la deriva governista. Tanto più, quindi, il governo userà l’armamentario procedurale per tagliare i tempi di discussione e per arrivare alla approvazione della legge di bilancio da parte del Senato prima del voto referendario, tanto più rischia di dare ragione agli oppositori del cosiddetto combinato disposto tra riforma costituzionale ed Italicum.
Nel caso di uno stallo dei lavori parlamentari, si potrebbe chiedere un voto a favore della riforma costituzionale, a conferma della inutilità di un Senato neghittoso ed inconcludente. La discussione sul referendum rischierebbe di trasformarsi in un plebiscito a favore della governabilità, ma soprattutto dell’interesse a beneficiare delle misure di spesa previste dalla legge di bilancio. Dall’altra parte, si rilancerebbero tutte insieme le accuse di inefficienza all’apparato pubblico: le enormi cifre del bilancio, buttate in pasto all’opinione pubblica, farebbero rabbrividire chiunque. Da una parte i benefici per pochi, dall’altra i grandi sprechi: la bilancia penderebbe come sempre a favore di coloro che protestano per questi ultimi.
La modifica costituzionale del 2012, introducendo il principio del pareggio, ha però abrogato il divieto posto alla legge di bilancio nel 1948, di introdurre nuove entrate e nuove spese. La manovra correttiva è stata quindi consolidata nella legge di bilancio, assorbendo in questa il contenuto innovativo attributo nel 1978 alla legge Finanziaria e poi alla legge di Stabilità. E’ stata rimessa sul tavolo una questione che nel 1948 fu risolta in modo salomonico, evitando gli storici conflitti fra Parlamento e governo sul diritto al bilancio: depotenziando al massimo il ruolo innovativo di quest’ultimo, ridotto al rango di legge formale che si doveva limitare a fotografare l’assetto delle entrate e delle spese vigenti, si spostò, sminuzzandolo, il conflitto politico in una molteplicità di provvedimenti legislativi.
Con la nuova legge di bilancio si può fare tutto, essendo stati eliminati tutti i limiti ed i vincoli che erano stati posti in passato dalle leggi di contabilità, a dire il vero senza alcun successo, per evitare abusi. Si può fare e disfare, tutto e tutto insieme: dalla erogazione della quattordicesima mensilità ai pensionati alle spese per il terremoto, dall’iper ammortamento per gli investimenti in tecnologia al censimento del contante tenuto in cassetta di sicurezza o a casa sotto il mattone. Basta un maxi emendamento, che ancora una volta cambia tutte le carte in tavola aggiungendo ed espungendo a piacimento, ammassando in un unico articolo migliaia di commi, e ponendo la questione di fiducia: basta un voto, e via così. Violando palesemente il dettato costituzionale, secondo cui le leggi si approvano articolo per articolo e poi con votazione finale: formalismi inutili.
La Commissione europea ci ha visto giusto: invece di lasciarsi invischiare nelle nostre beghe politiche interne, si è sfilata. Comunque la si metta, l’intreccio tra l’iter di approvazione del bilancio dello Stato e la campagna per il referendum costituzionale non intorbida le acque, ma fa chiarezza sugli equilibri istituzionali attuali, e su quelli a venire. Sono solo piccoli tormenti, vagamente consolatori, mentre gli equilibri globali collassano, un giorno dopo l’altro.