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Alessandro Baricco, Beethoven e Bob Dylan

Alessandro Baricco - Imagoeconomica

Senza vanto né vergogna confesso che non avevo mai letto Baricco. Sulla scia della sua esternazione contro il Nobel a Bob Dylan – “che c’entra con la letteratura?” – ho subito acquistato il suo libro appena pubblicato, Il Nuovo Barnum. La mia intenzione, vile e spregevole, era di stroncarlo. Ho invece scoperto uno scrittore straordinario, portatore di quell’afflato e quella visione che spesso manca nel panorama italiano.

Ha scritto righe bellissime in memoria di García Márquez: “Non mi riuscirà di dimenticarlo perché non ho letto una sola sua pagina senza ballare”. Io provo esattamente la stessa cosa per Bob Dylan. La mia mente non saprebbe ballare senza i suoi testi, con e senza musica. E’ una vita che cerco di scandagliarli, poi arriva qualcuno a dirmi che è tutto tempo perso e inizialmente ci rimango male. Poi faccio due conti e mi dico che una volta tanto, grazie alla decisione degli svedesi, hanno vinto quelli che la pensano come me.

Il verdetto di Stoccolma segna la fine del razzismo ideologico secondo cui esiste la letteratura con la elle maiuscola da una parte e le canzonette dall’altra. Noi siamo più complessi di così. Ci evolviamo. L’asticella divisoria del concetto di cultura è stata spostata. Non posso credere che uno scrittore illuminante come Baricco non accetti questo spostamento dei confini nella letteratura.

Negli anni ottanta un giornalista chiese a Dylan se avesse mai pensato al premio Nobel. Lui rispose di sentirsi come uno che proviene clandestinamente “dalla porta della servitù” (“from such a backdoor”). Non è più tale oggi quella porta, conduce direttamente al salotto buono. La cultura è scesa dal piedistallo e ha generato uno spazio diverso dove incontrarsi. Ho altrove definito Bob Dylan “un cowboy ebreo del Minnesota” proprio perché ha saputo varcare questa nuova frontiera.

Baricco ha un’intuizione cruciale riguardo al salto di qualità operato da Beethoven rispetto a tutti i suoi predecessori: non è una svolta qualunque quando Beethoven, con lungimirante megalomania, prende un tipo di musica che era piacevole intrattenimento e la trasforma in un’utopia capace di descrivere l’essenza dell’uomo di allora. E’ opinione di Baricco che solamente grazie a Beethoven siamo oggi in grado di apprezzare in pieno i suoi predecessori, come parti di un filo logico che soltanto lui aveva intravisto. Così fanno i grandi.

Così fa Bob Dylan. Non è vero che non ci sia più gente in giro capace di pensare in grande. Quando lui dedica una canzone al bluesman Blind Willie McTell, dona immortalità al nome di un musicista che sarebbe altrimenti finito nel dimenticatoio ma adesso ricorderemo per sempre, come uno dei pionieri di una musica che è diventata letteratura. L’estenuante serie di concerti tenuti di anno in anno fa di Dylan il più popolare emissario degli Stati Uniti d’America. Contaminando rock’n’roll, Bibbia e riferimenti letterari ha inventato il linguaggio per rappresentare la nostra era colonizzata, nel bene e nel male, dal sogno americano.

Non concordo con Baricco sulla definizione di Occidente. Ha ancora senso accomunare Europa e Stati Uniti? Non stanno forse Europa e America prendendo strade diverse, sempre meno conciliabili? Reagiscono allo stesso modo nello scacchiere geopolitico e soprattutto sanno comunicare tra loro? Abolirei il narcisismo di chiamarci Occidente. Se gli svedesi – illudendosi – hanno elargito il Nobel in chiave pro-Hillary Clinton, si sono sbagliati di grosso.  Qualcuno ha visto l’assegnazione come una rivalsa sessantottina e anti-Trump, ma non risulta che Dylan abbia rilasciato alcuna dichiarazione in proposito.

Davanti ai fatti dell’11 settembre Baricco si stupisce nel vedere la finzione diventare realtà perché è come se qualcuno ci informasse “che non ci sono più due cose, la realtà e la finzione, ma una, la realtà, che ormai può accadere soltanto nei modi dell’altra, la finzione”. I suoi commenti questa volta non grattano nemmeno la superficie del mistero.  Spiace dirlo ma la realtà è prevedibile attraverso la finzione. Dylan lo dimostra pubblicando Love And Theft, un disco non esente da riferimenti bellicosi, esattamente l’11 settembre 2001. Fare arte significa arrivare prima. Le parole di Dylan – ripeto, le parole – hanno il tempo dalla loro parte e sono pertanto imbattibili.

Quando Baricco si scaglia contro la globalizzazione non si avvede che nel 1983 Bob Dylan l’aveva già ben chiara in Union Sundown. Quando Baricco inorridisce per una mostra fotografica che ritrae afroamericani linciati e impiccati in un clima di connivenza, probabilmente ignora che già nel 1965 Dylan immortalò le stesse scene nei versi “they’re selling postcards of the hanging” tratti da Desolation Row.

Secondo Baricco i paladini della nuova civiltà sono gente come Steve Jobs, o come i fondatori di Google e di Wikipedia. Li chiama “i barbari”. Secondo Dylan sono una nuova versione dei condottieri romani, e per come li descrive in Early Roman Kings probabilmente hanno votato per Trump. Sappiamo che Steve Jobs era ossessionato da Dylan.

Baricco scrive queste parole del tutto condivisibili contro chi tra i critici è restio alle novità: “Non sarà per caso che la riflessione nel campo aperto del futuro vi impaurisce, e che preferite raccogliere consensi declinando da maestri mappe di un vecchio mondo che ormai conosciamo a memoria, rifiutandovi di prendere atto che altri mondi sono stati scoperti, e la gente già ci sta vivendo?”.

Non vorrei che queste parole si ritorcessero contro il loro autore. Una pietra rotolante è stata lanciata e sta acquistando sempre più velocità. Io nel mio piccolo mi sono ricreduto su Alessandro Baricco. Lo invito a ricredersi su Bob Dylan.



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