Amazon, Facebook, Alphabet (cioè Google), Microsoft, Apple. Ecco le vittime della prima giornata di contrattazioni dell’era Trump. La ragione? Semplice: dove troverà i cervelli che lavorano all’innovazione e alle start-up la Silicon Valley se il nuovo presidente chiuderà, come ha promesso, le frontiere?
LA PAURA DEL MERCATO DEL LAVORO
Non è solo l’agricoltura, come avevano scritto alla vigilia delle elezioni gli analisti di Fidelity International, il settore che ha da temere un calo rilevante dell’immigrazione. Perché da extra Confine arrivano anche i cervelli in fuga e non solo la manovalanza a basso costo. E il calo della Silicon Valley di ieri lo dimostra. L’industria, in generale, potrebbe soffrire anche per la tendenza protezionista del neopresidente: contrario a una maggiore liberalizzazione degli scambi e ostile agli accordi commerciali già in essere (come il TTIP e il TPP), Trump favorisce dazi doganali e restrizioni agli scambi, opponendosi all’uso dei cambi valutari come strumento di politica. “Le minacce di pesanti dazi sui prodotti cinesi rappresentano un fattore di rischio per ogni settore o società Usa che dipenda da quelle importazioni”, scrivono ancora gli analisti di Fidelity International.
ADDIO GREENOMICS?
Lo scetticismo del magnate sui cambiamenti climatici e normative ambientali ha fatto già tremare i titoli green. Ed è soprattutto il settore delle energie alternative, solare ed eolico, a dover continuare a tremare, dal momento che le generose sovvenzioni federali per questi comparti (sotto forma di credito d’imposta) potrebbero essere tagliate.
LAVORO E AZIENDE
L’abbassamento delle tasse sui redditi con la riduzione degli scaglioni da sette a tre e dell’aliquota massima sulle società dal 35% al 15%, aumenterà il potere d’acquisto dei consumatori Usa, spingendo i titoli legati all’economia domestica. Che beneficeranno anche di stipendi maggiori, se Trump terrà fede alla promessa di aumentare la retribuzione minima dagli attuali 7,25 dollari all’ora. Ovviamente quest’ultima misura si ripercuoterebbe negativamente sui settori che impiegano molta manodopera a basso costo, come la ristorazione e l’alberghiero.
MESSICO… E AUTO
Aumentare i dazi doganali sulle importazioni cinesi e messicane, rispettivamente del 45 e del 35%, come Trump ha promesso in campagna elettorale, farebbe aumentare l’inflazione. In media la merce importata negli Usa (oltre un terzo in arrivo dai due Paesi nel mirino del presidente Repubblicano) aumenterebbe di prezzo del 15%, con un impatto del 3% sui prezzi al consumo per gli americani tra 18 mesi, secondo le previsioni di Moody’s. In Messico si produce gran parte della componentistica auto che arriva anche negli Usa e le case automobilistiche europee, come Fca e Volkswagen hanno iniziato a produrre anche l’alto di gamma in quel Paese. Le immatricolazioni di auto negli Usa dipendono per il 18% (dato 2013) dal Messico. Non stupisce il calo sulle rispettive Borse sia delle citate case auto sia di un produttore di componenti come Brembo.
REGOLAMENTATI AFFOSSATI DAI TASSI
Un ulteriore driver dell’inflazione sarebbe la politica espansiva annunciata da Trump, che per ora ha penalizzato le utilità regolamentate sui cui conti i tassi di interesse impattano in maniera sensibile. In Europa lo Stoxx settoriale delle utilità è stato il peggiore in assoluto nel giorno dopo. Che comunque non è il giorno della verità e si dovrà vedere quanta parte del programma elettorale di Trump sarà trasformato in fatti concreti per capire dove andrà davvero questa America. Il giorno dopo solo un piccolo fatto è certo: la preconizzata morte dei mercati non c’è stata.