Sui volumi di produzione di petrolio tra i Paesi esportatori di greggio, che appartengano o meno all’Opec, è in corso uno scarica…barile. Ovvero, tutti sarebbero felici che sia posto un limite globale all’estrazione giornaliera dell’oro nero, purché siano gli altri ad attuarla. E questo perché, per un motivo o per l’altro, ciascun Paese produttore ha ottimi motivi per lasciare inalterati i propri ritmi di pompaggio. È il quadro che emerge dai continui colloqui si stanno tenendo in questi giorni fra le parti in previsione dell’incontro internazionale dell’Opec previsto per il 30 novembre a Vienna, al quale sono stati invitati anche Paesi che non partecipano al cartello ma che sono fondamentali per il settore, come la Russia.
Da questo quadro preliminare risulta evidente che l’Arabia Saudita, la maggiore sostenitrice del taglio della produzione, sta facendo grande fatica a trovare un consenso alla sua proposta. Riyad, stando a fonti a conoscenza dei fatti, sta cercando di convincere gli altri produttori a ridurre l’output di quasi il 2 per cento. La proposta dei sauditi prevede un calo complessivo di 32,5 milioni di barili al giorno. Sempre secondo quanto riferiscono le fonti, l’Opec sta nel frattempo esortando la Russia e gli altri produttori non-Opec a ridurre la produzione di 5-600 mila barili al giorno. Il che non è poco, visto che è un volume equivalente all’output di un Paese come l’Ecuador.
Nel complesso, sia i membri dell’Organizzazione che quelli esterni dovrebbero procedere a un taglio complessivo dell’1,6 per cento. Il problema è che la Russia da quell’orecchio sembra non sentirci. Anche un semplice congelamento della produzione mondiale richiederebbe che Mosca tagliasse la produzione di 300 mila barili al giorno. È quanto ha riferito il ministro dell’Energia russo Alexander Novak, il quale, parlando a un summit sull’energia in corso nella capitale russa, ha tuttavia puntualizzato che il Paese sta pensando di mantenere l’output stabile, non di ridurlo. Novak ha affermato che il Paese era in colloqui con altri Paesi non-Opec sul congelamento della produzione, in particolare con Kazakhistan, Uzbekistan e Messico. Intanto l’output della Russia nel 2016 non ha cessato di aumentare e di recente ha superato gli 11 milioni di barili al giorno.
I vertici di Mosca, d’altra parte, non sembrano molto motivati ad attuare politiche di sostegno ai prezzi del greggio. Sempre ieri, per esempio, il numero uno della banca centrale Elvira Nabiullina ha dichiarato che la Russia è in grado di sostenere prezzi del greggio ben più bassi di quelli attuali, fino a 25 dollari il barile, anche se le previsioni di Mosca indicano una stabilizzazione all’interno del range 40-50 dollari al barile per i prossimi due anni. “Facciamo i conti con uno scenario difficile di 25 dollari al barile. È uno scenario improbabile ma non catastrofico per la Russia, anche se potrebbe portare a un indebolimento del rublo”, ha commentato Nabiullina in un’intervista col settimanale americano Forbes pubblicata ieri.
Sempre dai colloqui preliminari emerge l’enorme difficoltà a convincere l’Iran, appena uscito da anni di embargo e quindi bisognoso di valuta estera per ammodernare impianti e infrastrutture, a porre un tetto alla produzione. Discorso simile va fatto per l’Iraq, coinvolto nella guerra contro l’Isis, e quindi nella necessità di finanziare ingenti spese militari. Nessuna meraviglia quindi che i mercati restino piuttosto freddi sull’offensiva diplomatica dell’Arabia Saudita. Tanto che ieri sera il petrolio Wti quotava a 47,96 dollari al barile, invariato rispetto alla chiusura di mercoledì.
(Articolo pubblicato su Mf, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)