Qualche anno fa, compariva sui nostri schermi la pubblicità di un noto bourbon: un gruppo di operai di una distilleria giocavano a centrare un bersaglio con un tappo di sughero, mentre aspettavano che il loro whisky americano maturasse in botti di rovere. La scena era certamente girata in Tennessee e quegli uomini erano una sorta d’incrocio tra “rednecks”, bifolchi un po’ grossolani degli Appalachi, e “blue collars”, operai delle fabbriche manifatturiere del MidWest, Ohio, Pennsylvania, Michigan, Wisconsin.
Se cercate gli artefici del successo di Donald Trump e i colpevoli della sconfitta di Hillary Clinton, li avete trovati in quello spot: sono loro che, dislocate le fabbriche e perduti i posti di lavoro, hanno negli anni accumulato, con la crisi, rabbia e frustrazione. E, martedì, hanno scaricato il loro rancore nell’urna.
Loro, soprattutto i “blue collars”, nascono democratici, ma stavolta hanno fatto il salto della quaglia: hanno abbandonato al suo destino la Clinton e hanno votato Trump, che dà l’impressione di capire, lui miliardario, i loro problemi di poveri diavoli, mentre l’ex first lady parla preciso, ma difficile, e dà sempre l’impressione d’essere lontana. E poi quella è a Washington da una vita e non ha mai fatto nulla per loro: perché fidarsi?
A Hillary Clinton, non sono mancati i voti degli americani, perché, di suffragi popolari, ne ha presi più lei di Donald Trump – ieri pomeriggio, mentre la conta non era ancora finita, ne aveva 170mila di vantaggio – , ma sono mancati un po’ di voti in quegli Stati, specie Pennsylvania e Michigan, dove un candidato democratico che vuole la Casa Bianca deve vincere.
Attraverso l’Unione, la Clinton non ha neppure fatto il pieno dei suffragi delle donne – quelle tipo Susan Sarandon, che di andare alle urne per lei non ci pensavano proprio: troppo remissiva e tollerante, per amore del potere più che del marito e della famiglia, di fronte alle scappatelle di Bill – né di quelli dei giovani. Molti sono rimasti orfani di Bernie Sanders quando s’è ritirato riconoscendo d’essere stato battuto da Hillary nella corsa alla nomination.
Ora ci s’interroga, del tutto accademicamente, se i democratici non avrebbero fatto meglio a giocare contro Trump proprio Sanders, il senatore “socialista” indipendente del Vermont che aveva destato tanto entusiasmo nelle primarie, dando del filo da torcere a Hillary. Sanders piaceva ai giovani e, forse, non avrebbe fatto scappare altrove i “blue collars”, con la sua retorica da populista di sinistra.
L’ex first lady, invece, non motivava né galvanizzava i suoi sostenitori. E neppure le minoranza nera e ispanica l’hanno sostenuta in modo convinto: di sicuro, non andavano a votare Trump; ma relativamente pochi andavano a votare Hillary. L’affluenza alle urne, al di là delle segnalazioni – sporadiche – di code ai seggi in talune località, non è stata altissima: i voti espressi sono stati meno di 120 milioni, in un Paese che ha 330 milioni di abitanti.
Ma le elezioni non le ha solo perse la Clinton, le ha anche vinte Trump, che pur potendo contare soltanto su un segmento d’elettorato ben determinato, se l’è giocata bene e senza grandi strepiti, fronte tattica. Un esempio: il serrate finale della sua campagna nel Michigan era stato interpretato come il tentativo disperato d’arginare un’emorragia di Stati in bilico che i sondaggi lasciavano intravvedere. Invece, il magnate s’è andato a prendere proprio i voti di cui aveva bisogno e che hanno fatto la differenza.