Come riporta il New York Times il 52% dei cattolici Usa ha votato per Donald Trump, e ben l’81% degli evangelici e dei born-again christians. Hillary Clinton ha convinto il 68% di atei e agnostici e, tra i credenti, soprattutto la comunità ebraica (71% rispetto al 24% per Donald). Insomma, come analizza a caldo ReligionNewsService sono i cattolici e i bianchi evangelici ad avere fatto la differenza per Trump, con un piccolo incremento a favore dei repubblicani rispetto al voto delle presidenziali precedenti. A dispetto del timore delle posizioni “razziste” di mr Donald. Timori malcelati, se a poche ore dal voto l’arcivescovo di Chicago, Blaise Cupich, preconizzato cardinale da Francesco, senza nominare il miliardario newyorkese twittava: “Il razzismo è peccato”.
Delusione e amarezza si registrano nella comunità cattolica più intellettuale degli States. Significativi i tweet notturni di James Martin SJ, dell’autorevole rivista dei gesuiti America Magazine. Quando lo spoglio cominciava a colorare di rosso repubblicano gli stati Usa, in un crescendo liturgico ha invocato con tre cinguettii diversi a distanza di poche ore: Signore pietà, Cristo pietà, Signore pietà. Al mattino, il padre ha rievocato il vangelo del giorno: “Gesù è furioso. Egli è adirato per quei soldi messi davanti a Dio e che calpestano i poveri. È una giusta rabbia”. Visto l’esito elettorale, forse non solo un richiamo biblico.
A non prendere bene la vittoria di Trump è Massimo Faggioli, docente di teologia all’Università cattolica di Villanova, Pennsylvania. Per fare capire la sua rabbia, posta per i lettori italiani una clip di Aprile di Nanni Moretti con l’indimenticabile scena del “Ho voglia di litigare”. Altrove analizza: “Il filofascismo americano aveva potenti radici cattoliche negli anni 30-50: cosa che i cattolici Usa non sanno o vogliono occultare”. Per Faggioli va ridiscussa tutta la teologia politica americana degli ultimi 20/30 anni. “Che Dio ci conceda il dono delle lacrime e vergogna per l’America”, cinguetta mesto.
Ben diverso il tono della Chiesa ortodossa: “L’elezione di Trump dà speranza per il miglioramento del sistema delle relazioni internazionali e per la creazione di una coalizione globale contro il terrorismo”. Così il metropolita Hilarion, capo del Synodal Department for External Church Relations, in una intervista a caldo con Interfax-Religion: “Le politiche americane in Medio Oriente degli ultimi anni a partire dalla caduta di Saddam Hussein e ai recenti avvenimenti in Siria – osserva – è stata miope e sbagliata”.
Il National Catholic Register analizza l’inaspettata vittoria di Trump a partire dal grande consenso ricevuto da evangelici e cattolici, anche per lo schieramento relativamente recente (almeno nei toni così schietti degli ultimi tempi) di mister Donald sui temi della libertà religiosa e la difesa della vita. Conclude Matthew Bunson citando Alexis de Tocqueville: “La libertà non può essere stabilita senza la morale, né la morale senza la fede”. Stoccata nemmeno troppo velata al secolarismo delle due coste Usa, roccaforti dem. Troppo intellettuali, troppo distaccate dall’anima del popolo americano.
“Una persona che pensa solo a costruire muri, ovunque si trovino, e non la costruzione di ponti, non è cristiano”, diceva Francesco sedici mesi fa. Il 5 novembre, ricevendo in Vaticano i partecipanti al terzo incontro mondiale dei Movimenti popolari, è tornato più volte sui concetti di muri generato dalla paura: “Muri che rinchiudono alcuni ed esiliano altri. Cittadini murati, terrorizzati, da un lato; esclusi, esiliati, ancora più terrorizzati, dall’altro”. Quindi ha insistito su ponti e carità. Un discorso che negli States è stato letto come un endorsement anti Trump.
John Allen, dell’autorevole CruxNow elenca, la mattina dopo il voto, i possibili aspetti di frizione futura tra Casa Bianca e Vaticano. E ad una lettura veloce si può immaginare un rapporto complicato.
Ma ci sono anche possibilità – forse ad oggi inaspettate – di lavoro comune. Immigrazione, cambiamento climatico, povertà, politica estera sono i punti di divisione tra Roma e Trump. “D’altra parte – scrive Allen – Trump ha promesso nel suo primo discorso da presidente eletto, di volere cercare di avere ottimi rapporti con le altre nazioni, e questo include anche la Santa Sede”. Secondo CruxNow, i punti di contatto possono essere sull’ecumenismo del sangue – lotta al terrorismo che fa oggi più martiri cristiani che in epoche precedenti –; ma anche la libertà religiosa – minacciata, secondo alcuni osservatori, per chi è contrario ad aborto e contraccezione (come ha dimostrato il caso delle
Piccole Sorelle dei Poveri che volevano essere esentate dal fornire Planned Parenthood ai proprio dipendenti). Trump, inoltre, anche se non si è mai espresso sulla teoria del gender (che il papa a più riprese ha criticato in linea col predecessore), ha sicuramente una visione etica tradizionale e non sembra intenzionato a spendere soldi all’estero per finanziare le Ong paladine del gender. “Per Trump – conclude Allen – sarà importate scegliere di rapportarsi col Vaticano grazie ad un inviato serio. E questo potrebbe essere il suo vice, Mike Pence, a suo agio con il linguaggio religioso e la fede”.
Ma i temi della difesa della vita non sono univoci nel panorama elettorale Usa. Trump ha stravinto in Nebraska, e l’elettorato dello Stato ha votato sì al contestuale referendum per reintrodurre la pena di morte. E in Colorado, espugnata dalla Clinton con un margine più ridotto, è passata l’eutanasia.
Da Roma, di qua e di là dal Tevere, toni pacati nella mattina del dopo voto. Il segretario di Stato, Pietro Parolin, fa gli auguri a Trump, seppure timidamente. Interrogato sulle critiche di Francesco – “non è cristiano chi fa muri” – il porporato invita a riflettere sulla differenza tra essere candidato e avere il ruolo di presidente: “Gli auguriamo che il suo governo possa essere davvero fruttuoso. Credo che oggi c’è bisogno di lavorare tutti per cambiare la situazione mondiale, che è una situazione di grave lacerazione, di grave conflitto”.
Quel che accadrà “lo diranno i fatti e li vedremo”, commenta il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, che auspica per gli Stati Uniti di ricompattare le divisioni “per portare avanti la propria storia e la propria democrazia”.