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Cosa farà la Cina in Europa secondo Romano Prodi e Marco Simoni

Conoscere a fondo la Cina, intrecciare relazioni politiche e commerciali più forti e intercettare i suoi cambiamenti vorticosi, prima che questi diventino più veloci della nostra capacità di interpretarli. È questa la linea comune da seguire nei confronti del gigante asiatico, secondo i relatori del seminario “2017: la Cina al bivio. Scenari geopolitici, economici e strategici”, che si è svolto la scorsa settimana al Senato.

“La Cina è un attore che sta cambiando molte cose globalmente, ma lo conosciamo molto poco. D’altra parte ha avuto pochissime relazioni con l’Italia”, ha esordito Giovanni Andornino, Vice Presidente del Torino World Affairs Institute. “Dovremmo seguire l’esempio tedesco: la cancelliera Merkel va ogni quattro mesi in Cina, dove si svolgono riunioni congiunte degli esecutivi, mentre l’Italia dorme sugli allori di una relazione che non è sviluppata quanto dovrebbe”, ha continuato, delineando poi alcuni dei cambiamenti che si sono susseguiti negli ultimi anni e spiegando alcune tendenze per il futuro: “Nel 1980 la Cina era l’ultima economia, in coda dietro a tutti gli stati asiatici, nel 2010 è diventata la seconda dopo gli Stati Uniti e si prevede che fra il 2018 e il 2025 sarà la prima. È storicamente un paese molto frammentato e deve fare i conti con i continui tentativi delle province di staccarsi dallo Stato centrale, che ha in cima alle priorità proprio la stabilità e la tenuta delle regioni più lontane da Pechino”.

Altri temi caldi sono la radicalizzazione della religione islamica, che interessa una parte consistente della popolazione in alcune province a nord ovest e che spaventa la leadership, e un’urbanizzazione impetuosa, causata da una migrazione dalle campagne mai vista prima. “Negli ultimi dieci anni la migrazione ha interessato circa 200 milioni di persone”, ha detto l’ex premier Romano Prodi, presidente della Fondazione per la collaborazione tra i popoli, che ha proseguito sottolineando come, nei rapporti con la Cina, si giochi molto del futuro italiano e che, proprio per questo, è necessario che il nostro Paese impari a ottimizzare i suoi vantaggi strategici: “L’interesse delle grandi imprese cinesi sarà sempre più orientato verso l’estero, anche verso l’Italia, che però, a parte l’affare Pirelli, oggi resta molto periferica. Dal momento che gli Stati Uniti hanno eretto più barriere rispetto all’Europa, nell’espansione economica della Cina il vecchio continente sarà sempre più centrale. Rappresenta una sconfitta italiana il fatto che in questo momento il terminal principale sia il Pireo”, ha concluso il professore, riferendosi alla vendita del porto greco alla società cinese di trasporto marittimo Cosco all’inizio del 2016, che però, a metà dello scorso ottobre è diventata azionista della piattaforma di Vado Ligure, facendo un ulteriore passo in avanti verso l’espansione nel Mediterraneo.

Più ottimista Marco Simoni, Consigliere Economico alla Presidenza del Consiglio dei Ministri: “L’anno scorso l’Italia è stato il primo paese per investimenti esteri della Cina in Europa e Pirelli è il caso tipico in cui una grande azienda decide importarne un’altra che completi le proprie competenze. Il mercato cinese è enorme e in crescita”, continua, “e rappresenta un ponte con i mercati del Sud Est asiatico per tutti i settori di nostra specializzazione, da quelli tradizionali come agroalimentare, moda e design, fino a quelli nuovi, come la green economy”.

Il peso del Pil cinese su quello mondiale continua aumentare (17% nel 2015) e la sua crescita, oggi del 6-7% annuo, si è dimezzata rispetto al 2007. Quali sono dunque le prospettive dopo il boom economico? Per Daniela Marconi, Senior Economist della Banca d’Italia, la Cina si trova in un momento di transizione, in cui si rende necessario un bilanciamento dell’economia: “Il modello di sviluppo cinese prima della crisi era incentrato sulle esportazioni e gli investimenti. Dopo la crisi la distanza fra credito in rapporto al Pil e credit gap è cresciuta a dismisura, arrivando a 30 punti percentuali, ciò viene considerato pericoloso per la stabilità finanziaria. Ci vuole quindi una revisione del ruolo dello Stato nell’economia, che faccia più investimenti in spesa sociale e in ricerca e sviluppo, e che diventi più innovativa verso le produzioni a maggior valore aggiunto”.


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