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L’Italia fa benone a criticare il bilancio Ue. Parla il prof. Marco Fortis

Tre C caratterizzano l’economia Italia: Conti Pubblici, Credito, Competitività. E sono anche quelle che il professor Marco Fortis analizza nel suo ultimo libro per il Mulino. Vicepresidente della Fondazione Edison, docente di Economia industriale e commercio estero all’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, editorialista del Sole 24 Ore e del Messaggero, Fortis appartiene alla squadra dei consiglieri economici di Palazzo Chigi, è un tecnico bipartisan, molto ascoltato da ministri e governi di diversa estrazione, da Giulio Tremonti, a Romano Prodi, all’ex  presidente del Consiglio, Mario Monti (che gli affidò la guida della commissione di compatibilità economica per la candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2020). E soprattutto crede che l’Italia in questi due anni e mezzo, i famosi 1000 giorni del governo di Matteo Renzi, ha cambiato faccia, fatto progressi e che la strada della crescita è stata imboccata e sarebbe un guaio “un salto nel vuoto” a seguito del referendum del 4 dicembre.

Lei scrive che in due anni e mezzo sono stati fatti molti progressi. Dove bisogna migliorare?

Sui conti pubblici, il credito, la competitività parecchio è stato fatto dal governo Renzi. Un governo, vorrei sottolinearlo, che si è trovato nel 2014-16 a gestire una ripresa già di per sé difficile confrontandosi allo stesso tempo con grosse emergenze, in primis le banche, e che ha puntato decisamente sulle riforme per trasformare la ripresa in effettivo rilancio. In questo scenario si collocano la necessità di coniugare la ripresa con la tenuta dei conti pubblici, le crescenti difficoltà degli istituti di credito (non solo italiani) e la sfida del rilancio della competitività.

Quali sono stati secondo lei gli obiettivi centrati da Renzi in politica economica?

I più importanti risultati ottenuti sono la creazione di 656 mila nuovi posti di lavoro, di cui il 70% a tempo indeterminato grazie al Jobs Act e alle decontribuzioni, e la contemporanea riduzione di 665 mila inattivi che oggi hanno ripreso fiducia e cercano un lavoro. I problemi aperti dalla lunga crisi, soprattutto in alcune aree come il Mezzogiorno, sono ancora gravi. Ma vi è stata una netta inversione di tendenza, anzi qualcosa di più di una semplice inversione, visto che in Italia è stato recuperato quasi il 70% dei posti di lavoro persi durante la recessione (in Spagna, per un confronto, ne hanno recuperati solo poco più di 1/3). Vi è stata poi una forte crescita dei consumi delle famiglie, grazie anche ai sottovalutati 80 euro. Basti pensare che rispetto al 1 trimestre 2014 i consumi privati sono cresciuti a tutt’oggi quasi 3 volte più del PIL. Si aggiunga che, grazie anche ai cospicui fondi stanziati per il made in Italy, vi è stato un miglioramento di 18,6 miliardi di euro del surplus commerciale con l’estero che ha raggiunto la quota record di 51 miliardi negli ultimi 12 mesi. Infine, sempre negli ultimi due anni e mezzo, si è registrata una crescita degli arrivi turistici totali di 8,1 milioni e una crescita del 16,4% delle compravendite immobiliari. Dove è possibile migliorare? Soprattutto nel rilancio degli investimenti, che sono ancora parecchio indietro, ma sui quali il nuovo Piano Industria 4.0 può fare molto.

Prima accennava alle banche, i nostri istituti di credito sono sempre in sofferenza o scaricano costi sui correntisti, come è successo con il fondo Atlante. Potrebbe essere questa la bolla che scoppierà a breve?

Il sistema bancario italiano non ha compiuto nella prima decade del nuovo secolo le nefandezze che si sono viste con i titoli tossici e i derivati in molti altri Paesi. In questi Paesi le banche sono poi state salvate con soldi pubblici, cioè dei contribuenti, il famoso bail-out. Nel 2012-13, quando ne avrebbe avuto ancora la possibilità prima che entrassimo nell’era del bail-in, l’Italia invece non ha salvato le sue banche né ha chiesto aiuti europei. Ciò per ragioni poco comprensibili, mentre il nostro Paese paradossalmente contribuiva con i nostri soldi pubblici a salvare le banche spagnole anziché le proprie. Forse perché a quell’epoca si sottovalutavano ancora i nostri problemi che covavano sotto la cenere. Il che ci porta a stigmatizzare il fatto che vi sono state negli ultimi 15 anni diverse banche italiane locali gestite malissimo dai vertici, spesso con comportamenti scorretti assolutamente inaccettabili. Quei vertici hanno sulla coscienza crisi conclamate capite troppo tardi come nel caso delle 4 banche salvate e delle due popolari venete.

Come potranno essere puniti i responsabili?

Per chi ha raso al suolo questi istituti ci sarà, dobbiamo augurarcelo, non solo la condanna della storia ma anche della giustizia. Nello stesso tempo la crisi economica ha dilatato il problema dei crediti deteriorati, che tuttavia in Italia hanno significative coperture non solo a bilancio ma anche reali come immobili, coperture che non vanno cedute a sconto con troppa precipitazione, specie ora che il mercato immobiliare è in ripresa. Ben più grave del problema delle sofferenze delle nostre banche è quello dei derivati in pancia alle banche straniere e della loro elevata leva finanziaria su cui tuttavia la vigilanza europea balbetta. Il governo Renzi ha realizzato la cruciale e coraggiosa riforma delle banche popolari che, se fosse stata fatta 20 anni fa, avrebbe probabilmente impedito un disastro come quello della Popolare Vicenza e di altri istituti minori che hanno distrutto e non valorizzato il risparmio del territorio stravolgendo il nobile fine originario delle banche popolari.

Come valuta lo stato di salute delle grandi banche italiane?

Le aggregazioni tra banche e la ristrutturazione di alcuni istituti come Unicredit e Mps sono la strada obbligata per uscire con raziocinio dal problema dei crediti deteriorati e mantenere solido un sistema bancario nazionale che non è affatto messo peggio di quelli delle altre maggiori economie europee e che vanta inoltre un gioiello come Intesa Sanpaolo.

Sui conti pubblici il nostro debito pubblico sta crescendo meno rispetto agli anni scorsi, eppure è il fardello su cui l’Italia viene sempre attaccata, soprattutto in Europa. Come se ne esce?

Sul debito pubblico italiano non solo gli stranieri ma anche i nostri concittadini non hanno le idee chiarissime, come leggo anche in alcuni interventi confusi di questi ultimi giorni. Questo governo è entrato in carica con un rapporto debito/PIL che nel primo trimestre 2014 cresceva ancora di 4,8 punti percentuali di PIL sullo stesso trimestre dell’anno precedente. Ciò a causa della politica sbagliata dell’austerità imposta dall’Europa e purtroppo accettata in Italia troppo supinamente. L’austerità, anziché ridurlo, ha fatto esplodere il debito/PIL. Se provochi una recessione di ben due anni consecutivi mediante una ottusa austerità è come se in Formula Uno il PIL restasse fermo per due giri mentre il debito intanto continuasse a girare imperterrito in pista, magari addirittura accelerando. Sicché un Paese può accumulare un salto nel debito/PIL che rischia poi di non recuperare se non in tempi molto lunghi.

E cosa ha fatto il governo italiano per invertire la rotta?

La PadoanRenzi-nomics ha combinato rigore e crescita ottenendo un risultato innegabile: nel secondo trimestre 2016, infatti, l’aumento del debito/PIL italiano è stato solo di 0,1 punti di PIL rispetto allo stesso trimestre del 2015. E faccio qui una previsione che non c’è ancora in nessun documento: nell’anno scorrevole che va dal 4 trimestre 2015 al 3 trimestre 2016, se stiamo ai dati preliminari di PIL e debito diffusi da Istat e Banca d’Italia, probabilmente il nostro debito/PIL calerà per la prima volta dai tempi della disastrosa crisi di credibilità del governo Berlusconi. Ma l’Eurostat e la Commissione UE, oggi impregnate a discutere di decimali incartandosi con le regole superate del Fiscal Compact, ce lo riconosceranno solo tra un paio di mesi.

A proposito, come giudica il braccio di ferro che il governo ha intrapreso sull’approvazione del bilancio Ue, esprimendo per la prima volta un veto?

Il nostro governo fa bene a chiedere una politica di maggiori investimenti in Europa, l’unica che può rilanciare la crescita e l’occupazione. E fa bene anche a porre un aut aut sul bilancio europeo di fronte ai comportamenti egoisti di alcuni Paesi dell’Est che prendono prontamente risorse senza essere altrettanto pronti o disponibili a collaborare su alcuni temi fondamentali come quello dell’immigrazione.

Romano Prodi è scettico su questo punto. Non dovremmo troppo criticare l’Europa…

Correggere le traiettorie sbagliate dell’Europa non vuol dire essere contro l’Europa. Prodi è stato ed è un grande europeista. Ma lui stesso critica nei suoi ultimi interventi le debolezze attuali dell’Europa. Anche Renzi è un europeista convinto ma sta oggi cercando sul campo di giocare tutte le carte possibili per evitare che l’Europa si incammini irreversibilmente su una strada sbagliata e che l’Italia sia lasciata sola a presidiare il confine meridionale dell’immigrazione. Lo stesso Schulz ha fatto un endorsement a Renzi per questo suo impegno.

Nel suo libro segnala che in due anni e mezzo la produzione industriale è cresciuta mediamente del 2,3% soprattutto nei settori hi-tech. Vuol dire che o le imprese puntano con decisione su questo aspetto oppure vengono spazzate vie?

L’economia reale italiana è sempre stata competitiva, semmai è il sistema-Paese con i suoi ritardi strutturali e la sua iper-burocrazia a non esserlo. Sono inoltre convinto che in questi ultimi trimestri stia avvenendo un ulteriore passo in avanti importante nell’industria italiana, che non è riflesso dalla modesta crescita del PIL in volume. Nel primo semestre del 2016, per capirci, il valore aggiunto a prezzi correnti della manifattura italiana è quello cresciuto di più nell’Eurozona, mentre in volume siamo tra i peggiori. I casi sono due. O stiamo sottovalutando la crescita reale della manifattura con deflatori troppo alti, nel qual caso tra un po’ il PIL potrebbe essere clamorosamente rivisto al rialzo, oppure più probabilmente stiamo producendo sempre più valore piuttosto che quantità. Se così fosse, sarebbe, in fondo, quello che molti economisti da tempo auspicavano. Cioè una Italia ancor più innovativa e moderna.

Prof. Fortis sia sincero: ma è vero che se al referendum prevalesse il No si avrebbero dei contraccolpi anche economici? Non le sembra esagerato?

Il sì al referendum è importante non solo per la portata in sé della riforma costituzionale, che rende il sistema politico-istituzionale più stabile ed efficiente, ma perché i mercati e gli investitori stranieri questa volta non capirebbero proprio la nostra testardaggine e incoerenza nell’auspicare, da tempo immemorabile, il cambiamento senza però poi realizzarlo mai. È anche sul sì al Referendum che si capirà se l’Italia riuscirà a dare veramente continuità alla sua svolta. Sta proprio lì, in definitiva, una grossa parte della ragion d’essere del punto interrogativo che chiude il sottotitolo del mio libro.


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