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Come spiegano i miei amici americani il trionfo di Donald Trump

Dopo la sorprendente vittoria di Trump e il mio primo commento – che qui ripeto: sì, sono più divertito che preoccupato, anche se è la prima volta dal 1928 che presidente (e che presidente), senato, camera e corte suprema sono dello stesso colore e l’esperienza di quegli anni non conforta – e visto che stiamo (ancora) leggendo e ascoltando dai media tutto e il suo contrario, vi riporto i “perché” in arrivo dalle mie autorevoli fonti americane, probabilmente più sul “pezzo” rispetto agli editorialisti italiani che dicono la loro “verità” da Milano e Roma, con un oceano di distanza e notizie per lo più di seconda e terza mano.

Innanzitutto va sottolineato che in certi ambienti la vittoria di Trump non è stata così sorprendente. Da un lato perché anche la Clinton, per diversi motivi, veniva generalmente vista come un pessimo futuro presidente. Dall’altro lato perché il malessere dell’americano medio – che ormai è diventato povero – è altissimo, con gran parte dei disoccupati che non cercano nemmeno più una nuova occupazione perché hanno perso la speranza di trovarla, come nel Mid West, dove gli unici posti di lavoro rimasti sono nei McDonalds o nei Burger King.

Sostanzialmente, è stato il voto degli americani che si sentono l’ultima ruota del carro di una economia che non vola e con loro – gli “ultimi” – che non ne beneficiano, nel terrore – soprattutto della maggioranza bianca – di veder diminuire sempre più il proprio status quo. Tanto per dire, una città come Detroit, che fino a pochi anni fa aveva una popolazione di due milioni di abitanti, oggi è una cittadina di 675mila cittadini, per una emigrazione, in gran parte di afroamericani, verso città più ricche come Atlanta.

È quindi il voto di chi dice basta. Sia alla perdita di posizioni interne, sia al concentrare risorse verso l’esterno. Così i temi forti di Trump – limiti all’immigrazione e protezionismo commerciale – si sono rivelati vincenti. E, drammaticamente, è stato il voto degli ignoranti contro gli istruiti, con una moltitudine di donne bianche – poco istruite – che hanno votato “The Donald”.

Con un “perché” su tutti. Il suo elettorato – e gli americani in genere – sono stanchi dello strapotere della grande finanza e della correlazione tra politica e grandi multinazionali, che spesso sviluppano i propri affari dietro le quinte e che non creano ricchezza diffusa ma anzi il contrario. E Trump su questo malessere ha spinto di brutto, promettendo una redistribuzione più equa della tassazione, che dovrebbe stimolare l’economia e favorire la crescita di posti di lavoro.

Se vogliamo trovarlo, l’aspetto positivo di Trump presidente – in antitesi con Hillary – è quello di essere un non-politico, nella speranza che sappia arginare la burocrazia, la retorica politica e i connubi sopra citati. E, difatti, la somma degli slogan della sua campagna presidenziale si può inquadrare in questo messaggio: “Vado a Washington a prosciugare la palude”.

In che modo? Soprattutto restringendo i poteri delle lobby. Eccola un’altra mossa azzeccata. Bisogna però vedere se è credibile perché anche il suo staff è stracolmo di professionisti di lungo corso della politica (Mike Rogers, Chris Christie, Rudy Giuliani, Newt Gingrich, eccetera) e non certo digiuni in questioni di lobbing.

Mentre su quello che farà, la sensazione è che a livello di commercio e investimenti potrebbe cercare di ostacolare i cinesi, invece in ambito militare potrebbe essere meno interessato – rispetto alla Clinton – a inasprire un confronto con la Cina per contrastare le sue mire espansionistiche nel Mar Cinese Meridionale e nelle isole di Senkaku. Nel senso che Trump non ha nessuna intenzione di fare lo “sceriffo” del mondo. Parallelamente si può immaginare un’apertura alla Russia e un disimpegno nella Nato o, almeno, una richiesta di impegno maggiore agli altri paesi della Nato, soprattutto quelli europei.

Con le sue prime parole (“il presidente di tutti gli americani”), i complimenti a Hillary sulla sua forza di volontà e l’incontro con Obama, abbiamo già visto un Trump più “normalizzato” ma resta comunque una incognita la sua filosofia presidenziale (e comunque ci vorranno un paio di anni per inquadrarla). Di sicuro, Trump rappresenta il voto di protesta, contro Washington e i suoi poteri forti, degli americani insoddisfatti che chiedono a gran voce un cambiamento. Adesso vediamo dove ci porterà.

Ecco, questo è ciò che dicono le mie fonti. Mentre io, in conclusione, dico che Trump è come il primo Berlusconi, con una sostanziale differenza. Lui non è dovuto scendere in politica per non finire in galera. Vediamo se questa enorme differenza gli consentirà di essere un buon presidente.


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