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Tutte le novità del nuovo contratto dei metalmeccanici

Di Michele Tiraboschi e Francesco Seghezzi

Se il piano Calenda è stato un primo tassello istituzionale e di sistema nella lunga marcia verso l’Industria 4.0, il contratto nazionale del settore metalmeccanico firmato oggi è un deciso passo concreto nella sua implementazione. Non che il rinnovo affronti in maniera diretta e specifica il tema della nuova manifattura digitale. Tuttavia la positiva chiusura della contesa sul contratto, e cioè del quadro economico e normativo di riferimento per fare impresa nella meccanica, consentirà ora alle parti sociali di concentrare i propri sforzi sulla attuazione del piano nazionale per Industria 4.0 forti di una intesa unitaria dopo ben otto anni di contratto separato.

Lunghi mesi di contrattazione, a partire da quella proposta di rinnovamento (e non di mero rinnovo) avanzata con forza da Federmeccanica, che hanno innescato un ampio confronto sulle nuove sfide delle relazioni industriali ben oltre i confini della meccanica e della manifattura. Una firma forse inaspettata, almeno nei tempi, in un Paese paralizzato in attesa di conoscere, con l’esito del quesito referendario del 4 dicembre, le sorti del governo di Matteo Renzi. Ed è per questo che non esitiamo a parlare di un coraggioso esempio di autonomia da parte dei corpi intermedi e della rappresentanza del lavoro e delle imprese, come peraltro confermano le recenti intese per il settore
del terziario e per l’artigianato, che hanno saputo prendere posizione evitando opportunismi di comodo. Un deciso passo in avanti verso un rinnovato sistema di relazioni industriali, dunque; e ancor di più nel rilanciare il nostro Paese nella sfida della competizione globale che ha dato avvio a quella nuova grande trasformazione del lavoro che tanto incide sui fattori della produzione e della distribuzione della ricchezza.

Sono diversi gli aspetti che ci portano a leggere questo rinnovo in termini di elemento di innesco, anche nel nostro Paese, della quarta Rivoluzione industriale. A chi già lo colloca tra le ineludibili premesse per l’atteso “patto della fabbrica” annunciato da Vicenzo Boccia ci permettiamo di segnalare che il contratto dei meccanici è già, per definizione, il patto della fabbrica, là dove ora la vera sfida posta dalla digitalizzazione del lavoro e dall’internet delle cose è la progressiva integrazione tra industria e servizi e con essa la nascita di modelli rivoluzionari di business tanto nella produzione che nella distribuzione. E questo perchè la quarta Rivoluzione Industriale non è la banale automazione dei processi di produzione, presente nelle nostre fabbriche da almeno trent’anni, ma piuttosto l’interazione costante e circolare tra produttori (lavoratori e imprese) e consumatori grazie a nuovi servizi e fenomeni di mass customization dei prodotti. Questo fa sì che il patto di cui abbiamo ora bisogno non è più quello della fabbrica ma semmai un nuovo e più esteso “contratto sociale” che, nel superare anche sul piano della infrastruttura normativa e istituzionale il Novecento industriale, spiani la strada ad una convinta attuazione del Piano nazionale per Industria 4.0 che, a ben vedere, è il vero Jobs Act di cui l’Italia ha tanto bisogno.

Se così è, pare a noi ben evidente, e sicuramente lo hanno capito per prime le parti firmatarie, che la quarta Rivoluzione industriale non sarà guidata in termini deterministici dalle c.d. tecnologie abilitanti e da vertici aziendali più o meno illuminati, quanto dalle competenze e dalla professionalità di tutti i lavoratori e con essi da relazioni industriali di tipo sostanzialmente collaborativo e di reale prossimità ai luoghi della produzione. Non pochi, nell’accordo appena firmato, sono i segnali che vanno in questa direzione, e che liberano ora le energie della alleanza dei produttori negli ambienti di lavoro, a partire dal riconoscimento del diritto post moderno alla formazione che in mercati globali del valore come quelli contemporanei, fluidi e segmentati, ha la funzione di surroga di quell’arcaico
articolo 18 proprio di sistemi di produzione statici tipici della impresa fordista. Al di là di valutazioni meramente quantitative, le 24 ore annuali per i lavoratori non coinvolti in piani di formazione aziendali rappresentano una svolta culturale di non poco conto all’interno di una evoluzione delle imprese, anche di piccole dimensioni, verso un modello di produzione in cui il ruolo della persona formata e competente sarà sempre più fondamentale. E la formazione è direttamente connessa con la produttività, ben più della mera deregolazione del quadro regolatorio
del lavoro avviata con il Jobs Act, perché dipende non solo dalla organizzazione del lavoro e dall’esercizio dei poteri di comando e controllo del datore di lavoro, quanto dalla presenza di capitale umano qualificato in grado di costruire e non solo governare l’innovazione.

Su questo fronte non si può che auspicare che i rinnovati spazi per la contrattazione aziendale possano aprire spazi ad accordi che davvero valorizzino i concreti aumenti di produttività e non solo, come ancora troppo spesso accade in ambigue attuazioni delle misure di detassazione del salario variabile, semplici aumenti automatici. In questo scenario sono due gli aspetti che occorrerà monitorare e che potranno, nei quattro anni di durata del contratto, aiutare a cogliere e vincere la sfida che pone Industria 4.0. Il primo, e forse il più importante, è la volontà di riformare la classificazione contrattuale del lavoro rispetto ai vigenti sistemi di inquadramento che, come si legge nella intesa, sono ancora fermi agli anni Settanta, e che oggi rappresentano uno dei principali vincoli alla digitalizzazione del lavoro che frantuma ruoli statici e modelli di retribuzione standardizzati su mansioni fisse.

Il secondo è la consonanza sul ruolo centrale delle politiche attive del lavoro e di sostegno ai percorsi reali di occupabilità della persona e riqualificazione professionale che diventano componente centrale, anche nella gestione delle politiche passive, di quello che deve essere un moderno sistema di welfare. Si tratta di due aspetti a ben vedere complementari sui quali si gioca la centralità del sistema industriale italiano anche nella sua capacità di allontanare lo spettro di scenari futuristici da fine del lavoro. E questo perché un modello stereotipo di regolazione dei rapporti di lavoro, che veda la formazione come investimento possibile unicamente in presenza di rapporti di lavoro
di lunga durata, oggi rischia di essere vano in mercati caratterizzati da estrema velocità e flessibilità.

Solo moderne professionalità, figlie di inquadramenti professionali non schematici ed in continua evoluzione con le tecnologie e i nuovi processi produttivi sollecitati dai consumatori, possono concorrere alla creazione costante di valore. Il sistema di politiche attive e di valorizzazione della occupabilità è, in questo scenario, il canale principale con il quale accompagnare la nuova grande trasformazione del lavoro.

La firma del rinnovo del contratto è, in questa prospettiva di analisi, un chiaro segnale anche per il governo che, dopo aver smantellato le vecchie tutele della fabbrica fordista basata su logiche di comando e controllo, non è ancora riuscito ad avviare il sistema delle politiche attive del lavoro e di ricollocazione che è ancora al palo ad oltre un anno dal varo del decreto legislativo 150 dello scorso anno. Parafrasando una non felice frase che ha accompagnato le riforme del lavoro di Enrico Letta prima e di Matteo Renzi poi, si può insomma davvero dire che ora non ci sono più alibi.

Neppure per il governo, questa volta.

(Articolo pubblicato sul Bollettino Adapt)



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