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Cosa cambierebbe in America con Donald Trump presidente

Donal Trump

Dobbiamo prepararci a una presidenza Trump? Stando al quel che succede in borsa, sembra proprio di sì. I mercati finanziari reagiscono con ondate di vendite, preoccupati di quel che potrà accadere. Vuol dire che la democrazia è in pericolo proprio nel Paese dove per primo si è affermata? Sgombriamo il campo da certe semplificazioni propagandistiche, una cantilena che si ripete sempre uguale, contro Ronald Reagan come contro Matteo Renzi. Certo è che cambiano anche negli Stati Uniti alcuni pezzi importanti nel rapporto tra sovrano e popolo e negli equilibri tra i poteri, segno distintivo della “democrazia dei moderni”. Trump sostiene che metterà i suoi averi in un blind trust, guidato però non da personalità indipendenti, ma dai suoi figli maggiori. Su di lui pendono ben 75 provvedimenti giudiziari, ricorda il Financial Times, che riguardano hotel, casinò e quant’altro. Con il rischio di finire sotto la mannaia del Congresso: impeachment anche per The Donald non solo per Hillary Clinton (se le indagini del Fbi avessero sono solo fumo, ma anche arrosto)?

Tuttavia l’ansia dei mercati non è per il conflitto d’interesse, ma per quel che Trump potrebbe fare. A cominciare dalla politica economica. Ha promesso di tagliare le tasse, non ha mai spiegato se vuole coprire la manovra con meno spese o se lo farà in deficit. La seconda opzione è la più probabile, ma questo significa impattare su un debito pubblico che, per quanto sceso durante la ripresa, resta sempre molto alto e si somma a un indebitamento privato tra i più pesanti al mondo. E’ stato fatto il paragone tra The Donald e Ronnie. Si dimentica che i primi tre anni della presidenza Reagan furono segnati da una durissima recessione provocata dai “deficit gemelli” (del bilancio pubblico e della bilancia con l’estero). Allora c’era da abbattere una inflazione galoppante, ma l’America non era indebitata, anzi proprio l’ascesa dei prezzi aveva consentito di abbassare il fardello dell’indebitamento. Soprattutto, la Cina era ancora povera e le liberalizzazioni lanciate da Deng Xiaoping alla fine degli anni ’70 erano nella culla.

E qui veniamo all’altro punto forte della Trumpnomics: salvare i posti di lavoro americani. “E’ ora di pensare ai lavoratori, può farlo lui che è un imprenditore non un politico di professione come Hillary”, è il mantra che si sente tra la middle class impoverita nella cosiddetta “America profonda” (non ricorda quel che diceva “l’Italia profonda” a proposito di Silvio Berlusconi?). A parte il fatto che Trump è un capitalista arricchitosi con la speculazione edilizia e con la finanza più che con la produzione di merci a mezzo di merci, gli anni di Obama hanno visto una creazione di posti di lavoro record e un certo ritorno della manifattura, ma per lo più in settori nuovi. Trump è il primo a sapere che le sue promesse sono mendaci perché l’operaio cinquantenne espulso dalle acciaierie non ritroverà mai il suo posto di lavoro. Dovrà essere assistito e qui casca l’asino perché “The Donald”, che critica l’assistenzialismo dei democratici, sarà costretto a fare i conti con gli effetti perversi della sua stessa propaganda.

Potrà salvare i colletti blu alzando le barriere protezionistiche contro la Cina? Certo, può gettare molta sabbia nel motore sbuffante della globalizzazione. Ma già oggi il rallentamento della domanda mondiale è la causa principale di una crescita meno energica che in altre fasi di ripresa ciclica. E molti temono che si prepari una nuova recessione o una lunga stagnazione. Ciò vuol dire non più, ma meno posti di lavoro rispetto agli anni scorsi.

Siamo così alla politica estera che non ha mai contato molto nelle elezioni americane, ma questa volta è una issue importante proprio per la stretta connessione con la politica domestica. A differenza di Hillary, il candidato Trump vuole alzare il tiro contro la Cina e ammorbidire i rapporti con la Russia di Putin. Il contrario di quel che hanno fatto i repubblicani dalla coppia Nixon-Kissinger in poi, una linea seguita poi anche dai democratici. E’ possibile? Francamente no. Perché al di là delle velleità trumpiane, gli interessi di fondo degli Stati Uniti restano legati alla carta cinese giocata per controbilanciare la Russia. Anche Pechino mostra una volontà di potenza, neo-imperiale secondo alcuni soprattutto in Asia e nell’area del Pacifico. Ma Mosca è la seconda potenza nucleare e Putin ha cominciato a usare anche questa minaccia. Dunque, non c’è alternativa a un neo-contenimento, più morbido o più aspro dipende dalle circostanze, non tanto dagli umori presidenziali.

La politica di Trump sarà più protezionista non c’è dubbio, ma non fino al punto di danneggiare gli interessi delle multinazionali a stelle e strisce che producono all’estero una fetta sempre maggiore di ricchezza. Sarà più isolazionista? Anche, ma bisogna tener conto che già Barack Obama ha scelto di tirare i remi in barca, sotto la bandiera del soft power. Lo si è visto con la Siria. L’esportazione della democrazia è una fase finita.

Tuttavia lo slogan America First non è affatto vuoto. Significa che Washington baderà a quelli che considera i propri interessi di breve periodo. Nel Medio Oriente non si sa se sarà più filo-saudita e cosa accadrà con l’Iran. In teoria dovrebbe essere più filo-israeliano, ma non ha ancora chiarito la sua posizione. E’ stato cristallino, invece, a proposito dell’Europa: dovrà pagare caro se vuol farsi difendere. E questo in fondo lo pensano tutti gli americani, Hillary compresa. Ciò spingerà i Paesi europei a realizzare finalmente una difesa comune? Bisognerebbe moltiplicare enormemente le spese militari rispetto al prodotto lordo. Inoltre la sicurezza europea non esiste fuori dalla Nato. Nel caso in cui peggiorasse la crisi con la Russia, anche Trump sarebbe costretto a mettere in campo l’Alleanza atlantica. Per tutto il resto, l’Europa dovrà cavarsela da sola. Alla prossima crisi dell’euro il Trump presidente non muoverà un dito per salvare la Grecia o l’Italia. Per questo gli euroscettici di destra votano The Donald. Trascinando con sé di fatto anche quelli di sinistra.



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