The Donald è il 45esimo presidente degli Stati Uniti. Una vittoria piena, inattesa, soprattutto in queste proporzioni. Il Paese più ricco del mondo, la prima potenza militare, è nelle sue mani. Affidereste la valigetta nucleare a quest’uomo?, aveva chiesto Barack Obama. Gli elettori hanno risposto sì e l’hanno consegnata al candidato che ha promesso America first. E’ l’uomo giusto al momento giusto? Che abbia saputo cogliere il momento non c’è dubbio, lo ha fatto lui e non Hillary, per questo ha vinto. Che sia l’uomo giusto per l’America e il resto del mondo è molto più discutibile.
Chi segue Formiche.net ricorda che fin dall’inizio non lo abbiamo mai sottovalutato, anzi abbiamo invitato a prenderlo sul serio; avrebbero dovuto farlo, e per tempo, i suoi avversari, invece di inseguirlo sul suo terreno, invece di partecipare a un reality show nel quale lui si è dimostrato molto più abile.
Avevano detto che le donne avrebbero sostenuto una donna, invece così non è stato, le donne si sono divise. La maggioranza conservatrice che ha mal digerito un presidente nero non poteva digerire un presidente donna e quella donna, identificata non solo e non tanto con il potere di Washington, ma con il mondo liberal che loro odiano.
Molti celebrati guru sostenevano che le minoranze avrebbero votato per Hillary, a cominciare dagli ispanici, invece la geografia del voto dimostra che così non è avvenuto. Anzi, hanno dato un supporto aperto a chi vuole costruire il muro.
Erano convinti che l’establishment avrebbe retto e l’anti-establishment non avrebbe mai potuto sfondare, invece l’establishment si è diviso, ciò riguarda anche chi vive a ricasco dell’establishment politico-militare (lo si vede anche in questo caso dalla mappa del voto). Così, il cosiddetto anti-establishment, o piuttosto l’altro establishment, ha vinto.
In politica interna è un terremoto. Il partito repubblicano viene spazzato via, ha vinto un uomo che ha “bombardato il quartier generale”. Il partito democratico è profondamente lacerato e dovrà cercare un personaggio nuovo, come nuovo e fresco fu Barack Obama, invece di dare spazio ai vecchi elefanti (o elefantesse), alle dinastie, ai baroni del Congresso.
La valanga Trump si fa inarrestabile perché i repubblicani ottengono il controllo del Congresso e a questo punto il nuovo presidente può riplasmare anche la Corte suprema, oggi divisa 4 a 4 tra conservatori e progressisti, con molti membri troppo anziani i malati per restare. Una Corte spostata a destra diventa sempre più probabile in tempi anche rapido.
Anche sul piano economico, almeno stando alle prime reazioni dei mercati, lo scossone si annuncia profondo. Giù gli indici di borsa, a picco il peso messicano, scende il dollaro sull’euro (una notizia non positiva per l’Italia e per l’area euro). Ciò avviene non tanto perché, come si è sentito dire, Wall Street ha sostenuto Hillary e adesso ne paga il prezzo, ma perché all’ìmprovviso gli Stati Uniti diventano una gigantesca fonte di incertezza e instabilità, e chi investe i propri risparmi teme questo scenario come la peste.
La politica estera è tutta da riscrivere e francamente nessuno ha nemmeno la penna e la carta per farlo. Putin esulta? Forse, perché con Trump può giocare su una chimica personale che certo non c’era con Obama. Ma davvero il “nuovo zar” crede che gli lascerà l’Ucraina, i paesi baltici e tutta la corona di repubbliche che facevano parte della vecchia Unione sovietica? O pensa che potrà negoziare con lui una sorta di Yalta globale? Quanto ai cinesi, hanno in mano uno strumento fondamentale per ostacolare la minaccia protezionista di Trump: possiedono una quantità tale di debito americano da poter mettere in ginocchio gli Stati Uniti. E chiunque sieda nell’ufficio ovale dovrà tenerne conto. Nord Corea, la nuclearizzazione del Giappone e della Corea del sud, l’Iran, l’accordo sul clima, il petrolio del Medio Oriente, tutti dossier che The Donald ha riaperto per fare facile propaganda, chissà se e come riuscirà a chiuderli.
Non è affatto chiaro cosa farà Trump presidente e tanto meno quale presidente sarà. Possiamo azzardare qualche ipotesi. Prima di tutto che deluderà presto i suoi elettori perché non manderà affatto in pensione l’establishment, a cominciare da quello del partito repubblicano con il quale, al contrario, dovrà trattare per non rischiare un isolamento rovinoso che gli impedirebbe di governare. Tanto meno manderà in soffitta Wall Street. Non solo perché The Donald la conosce bene e l’ha usata con abilità nella sua carriera di tycoon immobiliare, ma perché nessun presidente può guidare gli Stati Uniti contro chi ha in mano la potenza economico-finanziaria del proprio paese.
I colletti blu, i volti della cosiddetta America profonda e dimenticata, proletaria, poco istruita, emarginata, guarderanno attoniti al gap tra quel che Trump aveva promesso loro e quello che farà o potrà fare. Non sarà certo in grado di aumentare i posti di lavoro più di Obama. Non potrà riaprire impianti siderurgici improduttivi né metterli in mano allo stato (in America non si fa e non lo si può più fare nemmeno in Europa). Costruirà il muro, sarà un gesto dal grande valore simbolico, ma non fermerà la corsa a diventare cittadino degli Stati Uniti. Chiederà agli europei di pagare per la propria difesa, certo non scioglierà la Nato.
I suoi elettori potranno essere contenti solo se il Paese crescerà più di quanto non abbia fatto finora. La storia americana dimostra che questa è la via americana al benessere, non la redistribuzione dei redditi che, semmai, è piuttosto la via europea. Che ciò avvenga dipende dalla politica fiscale (davvero verranno tagliate le tasse senza aumentare l’indebitamento del Paese?), ma soprattutto dalla capacità di rimettere in moto gli “spiriti animali”. Per conquistare il potere Ronald Reagan lo fece, liberandoli da molti lacci e lacciuoli. Donald Trump finora li ha scudisciati e demonizzati, ha promesso di tenere le redini tirate, di metterli in gabbia se necessario come chiedevano gli elettori da conquistare. Chissà se quegli stessi spiriti si prenderanno la rivincita.
Stefano Cingolani