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La crisi dell’Ue vista da Marco Buti

Sul finire di una giornata uggiosa, tipica del clima londinese, in una sala di medie dimensioni della London School of Economics and Political, Science si è tenuta la conferenza di Marco Buti su quelle che il direttore generale per gli Affari economici e finanziari della Commissione europea ha definito le incompatibili trinità dell’Europa. Con ciò si intende l’impossibilità di avere allo stesso tempo più di due fattori di una certa triade, come per esempio la libertà di movimento dei capitali, tassi di cambio fissi e politiche monetarie indipendenti; le condizioni che portarono all’adozione della moneta unica.

Ad ascoltare Buti c’erano più professori e dottorandi che regolari studenti. L’ambiente era prevalentemente maschile, anche al tavolo con Buti vi è una sola donna Mareike Kleine che, insieme a Paul de Grauwe, insegna all’Istituto Europeo. Il moderatore Iain Begg prima di cominciare puntualizza: “L’Articolo 50 non è stato (ancora) attivato, non fate domande sulla Brexit perché tecnicamente non è ancora successo niente”.

Buti ha cominciato il suo discorso evitando di drammatizzare la situazione in cui ci troviamo: “C’è un declino della fiducia in Europa ma questo è all’interno di una generale sfiducia verso le istituzioni, incluse quelle a livello nazionale”. In linea di massima gli europei non sono contrari ad estendere i servizi che l’Unione europea rende, perciò è necessario ripensare l’idea europea di “public goods”. “La prossima ondata di ristrutturazione in Europa probabilmente coinvolgerà il settore bancario […] Pensavamo che condividere sovranità monetaria avrebbe portato naturalmente la convergenza di preferenze sociali e fiducia reciproca, ma non è successo”.

Buti ha poi spiegato che negli ultimi dieci anni, mentre godevamo di congiuntura economica positiva, sotto la superficie divergenze strutturali si approfondivano fra i sistemi produttivi nazionali, influenzando così le preferenze sociali dei vari Paesi. La crisi economica ha portato alla luce queste tensioni. Il direttore generale ha quindi suggerito di guardare alla situazione attuale in prospettiva. Se infatti prima dell’Atto Unico Europeo avevamo un sistema basato sulle istituzioni degli Stati nazione con un sistema democratico tradizionale, con Maastricht adottammo un approccio più federalista, approfondendo l’integrazione politica cercando di mantenere la legittimazione democratica. Con la crisi del 2007 – ha detto – siamo andati avanti con nuove forme di integrazione ma con un approccio intergovernamentale. Siccome non si possono avere tutte e tre insieme Buti ha proposto di progredire con l’integrazione politica ma basata su una maggiore legittimazione democratica delle istituzioni Europee.

Allo stesso modo non si può avere al contempo bassa crescita, rigore fiscale e uno stato sociale sostenibile; il fattore da cambiare in questo caso è senza dubbio la crescita. Questo porta Buti a considerare la condizione dell’Eurozona: “Se hai un’inflazione costantemente sotto l’obiettivo del 2 per cento è molto difficile per Paesi che sono più vulnerabili allo stesso tempo riguadagnare competitività e abbassare il fardello del debito”. Una soluzione dovrebbe includere riforme per stimolare la crescita, politiche più bilanciate in supporto della politica monetaria della Bce e rinforzare la dimensione decisionale dell’Ue con una rinnovata legittimazione democratica.

Secondo Buti l’Ue è un facile bersaglio dei populismi perché essa interviene solo come forza di liberalizzazione e di integrazione dei mercati, mentre ha competenze molto limitate per quanto riguarda l’aspetto pre-mercato, le sovvenzioni, e post-mercato, il welfare. “Questo penso che non sia né politicamente né istituzionalmente un equilibrio sostenibile”. Per Buti rendere la situazione sostenibile vuol dire estendere le competenze dell’Ue oltre quello con cui viene facilmente associata: le fredde leggi del mercato.

Il professor de Grauwe ha risposto al discorso di Buti sostenendo che la crisi dell’Ue deriva dal fatto che essa semplicemente non è adatta al capitalismo moderno. Quest’ultimo è un sistema economico efficiente ma estremamente instabile, l’Unione Europea ha tolto agli Stati membri i loro strumenti stabilizzatori, senza apportarne degli altri. L’Ue di fatto non avrebbe aiutato i Paesi membri a uscire dalla crisi economica, avrebbe anzi peggiorato la condizione delle classi più basse richiedendo tagli alla spesa pubblica proprio quando ce n’era più bisogno.

Anche la professoressa Kleine ha sollevato dubbi sulla capacità dell’Unione di sopperire alle esigenze delle classi più basse, che non sono semplicemente le “perdenti della globalizzazione” ma anche le vittime dell’automazione. Sarebbe quindi la sostenibilità politica di tutto il sistema a essere in questione poiché il populismo non sembra in procinto di scomparire nel prossimo futuro e l’Ue sarà sempre il suo bersaglio preferito, così che l’euroscetticismo viene adottato anche dai partiti tradizionali. Le riforme proposte da Buti porterebbero semplicemente ad accrescere la centralizzazione delle istituzioni europee, esacerbando il criticismo nei confronti di Bruxelles.

Buti ha riconosciuto la profondità delle sfide che ci si profilano davanti, ma si è detto convinto che il livello europeo sia l’unico possibile per affrontarle. Senza dubbio c’è una tendenza molto forte a scaricare la colpa su Bruxelles e l’Ue ha bisogno di più flessibilità per assorbire gli shock futuri. Nonostante tutto bisogna andare avanti e per farlo occorre una leadership politica forte e chiara.



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