E’ stata una campagna elettorale assai strana, quella per le presidenziali americane che si concluderà con il voto di martedì prossimo. Mesi di confronti aspri tra i candidati, che si sono rivolti all’elettorato in modo assolutamente inconsueto, tutto rivolto al passato: mettendo costantemente in discussione il comportamento personale e politico, si delegittimava l’avversario.
Se da una parte si chiede un’assoluta continuità politica e dall’altra un radicale cambio di rotta, senza un confronto sulle scelte compiute in passato, è inutile discutere del futuro. Lo storytelling di Hillary Clinton è stato tutto racchiuso dalla conferma della strategia realizzata dal presidente Obama nei suoi due mandati, quasi chiedendone un terzo per sè, tanto forte è la continuità. Dall’altra parte, Donald Trump ha rimesso in discussione tutte le scelte democratiche: dalla creazione dell’area nordamericana di libero scambio (Nafta), alla politica estera della Clinton, segretario di Stato durante la prima presidenza Obama, fino alle più recenti scelte di quest’ultimo, sostenitore del trattato Tpp che metterebbe a rischio altri posti di lavoro in America.
Per entrambi i candidati, l’America deve mettersi allo specchio, per analizzarsi, constatandosi comunque debole. A confermarlo, ci sono gli slogan usati dai candidati, da decifrare per i significati subliminali che sottendono. Hillary Clinton ha scelto di intitolare la sua campagna con le parole “Stronger together” (Più forti insieme), dove però anche la grafica utilizzata suggerisce un polisenso, poiché la parola “together” (insieme) si presta a dividersi in tre diventando “to get her” (per farla eleggere). Si ribalta completamente il significato profondo del famosissimo “Yes we can”, che caratterizzò la campagna elettorale di Obama: mentre quest’ultimo sottendeva la attribuzione del potere politico direttamente ai cittadini che raccoglievano il messaggio, stavolta il baricentro del messaggio si è spostato tutto sulla persona della candidata Clinton. Lo slogan sottende comunque uno stato di debolezza, cui solo la elezione della Clinton può porre rimedio. Questa interpretazione è confermata dal recentissimo appello lanciato sia alle minoranze, neri ed ispanici, sia alle donne, che vengono invitate a votarla in massa: se in passato ci fosse stata una presidenza Trump, oggi la loro situazione sarebbe di gran lunga peggiore. E’ un appello ai più deboli, tipico dei democratici.
Allo stesso tempo, lo slogan usato da Trump è indicativo di una situazione di profonda frustrazione: “Make America great again” (Rendiamo di nuovo grande l’America). Si rivolge alla classe media, non solo ai bianchi come si lascia credere: la critica alla immigrazione clandestina e la minaccia delle espulsioni, con la prospettiva di erigere un vero e proprio muro al confine con il Messico, non piò essere disgiunta da quella mossa ai trattati commerciali ed alle multinazionali che hanno desertificato il tessuto industriale americano, sfruttando il basso salario all’estero ed il lavoro degli irregolari negli Usa.
Il malessere economico e sociale degli americani, al di là dei dati ufficiali sulla bassa disoccupazione e la crescita economica, è palese. Per il solo programma di assistenza alimentare integrativa (Snap), nel 2016 la spesa complessiva sarà di oltre 56 miliardi di dollari, rispetto agli oltre 70 degli anni in cui la crisi è stata più pesante: ancora quest’anno ne beneficiano oltre 44 milioni di persone, appartenenti a 21,8 milioni di nuclei familiari, per un importo medio mensile di 250 dollari. Intanto, la tassazione sui redditi è crescita esponenzialmente: il suo gettito, che già nel 2012 aveva recuperato il crollo del 2009 ritornando a 1.500 miliardi di dollari, nel 2015 è arrivato a 1.950 miliardi, con un incremento di 450 miliardi (+30 per cento) in tre anni. La spesa federale per la Social Security mostra da tempo una dinamica tanto costante quanto inarrestabile: è passata dai 400 miliardi di dollari del 2000 ai 600 miliardi del 2008, per arrivare a 875 miliardi nel 2015, aumentando del 45 per cento negli anni dopo la crisi. Anche le ulteriori spese per la assistenza sociale erogate dai singoli Stati americani sono cresciute, passando dai 250 miliardi di dollari del 2000 agli oltre 550 miliardi del 2015. Una identica dinamica mostrano le spese federali per l’assistenza sanitaria (Medicare), passate dai 225 miliardi di dollari del 2000 ai circa 625 miliardi del 2015. La consistente riduzione della spesa per la Difesa, passata da oltre 650 miliardi di dollari del 2011 ad un po’ meno di 600 miliardi nel 201, ha compensato in minima parte l’aumento delle spese assistenziali.
La crisi del 2008 non ha alterato le tendenze di fondo della spesa sociale: è in atto, da oltre un quindicennio, una radicale trasformazione dell’economia americana, che si è andata immiserendo dal punto di vista della produzione tradizionale. Per mantenere la coesione sociale, si è realizzata una gigantesca politica di redistribuzione dei redditi, finanziata attraverso la tassazione sempre più pesante della classe media. Qui, la distanza tra la Clinton e Trump si fa abissale. Mentre i più deboli guardano alla Clinton con trepidazione, nella certezza che proseguirà questa politica assistenziale, Trump auspica che ritornino i posti di lavoro delocalizzati all’estero: ai poveri servono salari, non sussidi pubblici.
Nel frattempo, si stanno radicalmente modificando le dinamiche internazionali che hanno ribilanciato per anni, sotto il profilo finanziario e monetario, gli squilibri commerciali strutturali americani che hanno caratterizzato anche la fase della globalizzazione: la Cina non solo non reinveste più in titoli del tesoro statunitense il suo avanzo commerciale, ma sta invece riducendo continuamente le proprie detenzioni, che sono passate dai 1.270 miliardi di dollari dell’agosto 2015 ai 1.185 miliardi dell’agosto scorso. Il Giappone, a sua volta, non incrementa gli acquisti. I Paesi produttori di petrolio vendono o non rinnovano, per via della necessità di far cassa: l’Arabia Saudita è passata da 113 a 93 miliardi di dollari, mentre gli Emirati Arabi sono scesi da 71 a 64 miliardi. La Germania, invece, ha reinvestito negli Usa una parte del suo surplus commerciale, passando da 80 a 103 miliardi., così come hanno aumentato le rispettive detenzioni il Belgio, il Lussemburgo e la Svizzera.
Hillary Clinton punta al completamento della strategia delineata sotto la Presidenza Obama, e che lei stessa aveva contribuito ad elaborare come Segretario di Stato: ratificare i due Trattati di liberalizzazione commerciale, il Tpp sul versante del Pacifico ed il Ttip su quello Atlantico, per legare a sé quanti più alleati possibile, isolando la Cina da una parte e la Russia dall’altra. Si manterrà assai elevata la pressione politica e militare nei confronti di quest’ultima, mentre nel Medio Oriente si contempla attivamente il logorante conflitto interno al mondo arabo, tra Paesi sunniti e Paesi sciiti, che mima la guerra che negli anni Ottanta sterilizzò le mire espansivi di Iraq ed Iran.
Donald Trump ritiene che la priorità debba andare all’economia interna, rivedendo gli accordi commerciali di cui hanno beneficiato prevalentemente le multinazionali, facendo rimpatriare i capitali americani detenuti all’estero in esenzione di imposta, sanzionando la Cina per manipolazione valutaria. Bisogna cambiare le tante regole che hanno favorito il “free trade”, anziché il “fair trade”.
Per la Clinton, l’America deve andare avanti, senza tentennamenti. Per Trump deve cambiare strada, per evitare che la situazione peggiori senza rimedio. Da una parte c’è il tentativo di riequilibrare il disavanzo commerciale strutturale americano con nuovi Trattati commerciali di liberalizzazione, dall’altra il timore di altri risultati negativi per i lavoratori americani, come in passato.
Più globalizzazione da una parte, meno dall’altra. Conflitti militari da una parte, guerre commerciali e valutarie dall’altra. Nel mezzo, dal punto di vista del carico fiscale sulla classe media americana e del passivo commerciale statunitense con l’estero, un insostenibile status quo.